Zeitgeist

UCTAT Newsletter n.62 – DICEMBRE 2023

di Paolo Aina

Luca 2, 6-7

6 Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7 Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo.

Questa è la descrizione da parte dell’evangelista Luca della nascita di Gesù, non vi è nessun edificio si parla solo di una mangiatoia.

Possiamo pensare che il riparo possa essere una grotta trasformata in stalla o un edificio senza pretese che viene adoperato come ricovero in primo luogo per gli animali e in caso di necessità, come in questa circostanza, per gli viandanti.

Nel presepe che ho fatto da bambino e che a volte faccio ancora la sede del parto è in una stalla con pareti in legno e il tetto  a falde di paglia, una costruzione assolutamente in linea con i dettami della bioedilizia, anche il riscaldamento avviene, come tutti sappiamo, con pochissime emissioni climalteranti.

Questo modello di ricovero non è certo associabile a quelli del Sud del mondo dove la vicenda si svolge; là il clima è molto diverso dal nostro: i tetti non hanno falde e le pareti non sono costruite impiegando degli alberi che lì sono meno diffusi.

Qui da noi, al nord, invece il tetto a falde è la tradizionale copertura degli edifici tant’è che un trattato settecentesco ha un’illustrazione dove l’architettura indica a un putto come lo si costruisce a partire da un boschetto.

Le falde variamente modellate coprono l’ultimo solaio che dapprima è usato come deposito e successivamente si trasforma in abitazioni, prima per i più poveri: i poeti che si propongono di riscaldare una gelida manina e successivamente per chi ama stare in alto e avere una vista del cielo.

Il modello dei nostri presepi sono il nostro paesaggio, del mio la pianura di altri le montagne di altri ancora colline e campi.

Noi siamo il paesaggio che abbiamo visto fin da subito e ne subiamo l’imprinting così come l’oca Martina subì l’imprinting dello scienziato.

Le statuine dei pastori, delle pecore, delle capre, degli animali da cortile, le attività che vengono evocate sono quelle di lavori umili  non più così diffusi o addirittura scomparsi: l’arrotino, la lavandaia, il portatore di acqua, il venditore di pesci (avevo una statuina napoletana di un venditore con delle mani che sembravano pinne davanti alla sua bancarella stracolma di pesciolini colorati, fantastica) ma sempre legati ad una realtà di cui abbiamo memoria anche se spesso non l’abbiamo mai vista per davvero.

Anche il ricovero del bambino, di Maria e di Giuseppe mi suscita una memoria rassicurante, non è niente di eccezionale, ha una semplicità costruttiva che mi fa pensare alla definizione di progetto di un famoso scrittore: “Chi progetta sa di aver raggiunto la perfezione non quando non ha più nulla da aggiungere ma quando non gli resta più niente da togliere”.

L’enfasi sulla perfezione mi lascia sempre perplesso, che cosa è perfetto?

Produrre qualcosa di perfetto vuol dire comprendere tutto, dirimere ogni contraddizione, questa possibilità avverrebbe solo se si potesse annullare il tempo e annullare il tempo vuol dire entrare in una dimensione di stabilità che qualcuno ha identificato come la proprietà peculiare dell’eternità.

Più ragionevole per ciò che viene edificato mi pare un concetto rinascimentale di bellezza: “Bellezza è ragionevole armonia di tutte le membra in guisa composta che non si possa aggiungere o togliere nulla se non in peggio”.

La caratterizzazione “ragionevole armonia”  della bellezza la definisce come qualcosa di non astratto, qualcosa di comprensibile senza particolari difficoltà, qualcosa di economico e di sensato.

Lo spazio è sufficiente per l’uso a cui è destinato, non si impone per la stranezza delle soluzioni, in una parola ci lascia liberi pur essendo a nostra disposizione per le azioni che vi vogliamo compiere e ci chiede di caratterizzarlo con ciò che desideriamo e con quelle buone cose di pessimo gusto che andranno a fare parte del nostro personale “Museo dell’innocenza”.

Finalmente possiamo dare vita a qualcosa di personale, qualcosa che costituisce il nostro “ubi consistam”, il punto fermo da cui parte la nostra identità, un parafulmine ben infisso nel terreno della nostra esistenza, così come la mangiatoia del Natale lo è stata fino alla nostra modernità e ha in qualche modo ha segnato la nascita della cultura europea.

La modernità che inizia con la tracotanza di illuminare i “secoli bui” trova un ostacolo immediato e potente nelle città fondate lontano nel tempo e dove si sono accumulate le storie della comunità, dove gli edifici sono stati mantenuti e riutilizzati, o abbattuti e ricostruiti edificando e riedificando l’identità degli abitanti che ancor oggi è assai definita.

La modernità in cui viviamo porta all’oblio, ci scordiamo facilmente chi siamo. Lo spazio fisico in cui viviamo si restringe mentre si amplifica una sorta di spazio metafisico a cui accediamo come fantasmi attraverso l’elettronica.

La Rete ha fatto perdere il significato collettivo delle piazze e ci ha relegati in una stanza, chiusi nel cranio davanti a uno schermo, dimentichi del corpo.

Eppure il corpo ha le sue ragioni, ha bisogno di uno spazio per vivere e camminare e incontrarsi con altri corpi: il parco, la via, la piazza, la fontana, i portici, gli ingressi della metropolitana, le insegne dei negozi, i caffè (dove secondo un famoso scrittore è nata l’idea di Europa)… luoghi artificiali tipici delle città europee e in modo diverso di tutte le città del mondo.

L’arte di costruire la città pare sia stata dimenticata il primo pensiero non è il benessere dei cittadini ma la valorizzazione economica dello spazio urbanizzato a questa politica molti di noi architetti collaborano fornendo prodotti (edifici) il cui scopo è diventare appetibili con la loro forma inusitata senza un vero radicamento, sono buoni per qualsiasi città, da Lagos a Pechino, da Città del Capo a Stoccolma.

Tutto questo si ottiene grazie a una tecnologia che permette di azzerare le condizioni specifiche e considera la Terra come fosse la Luna.

Il mondo che è sempre stato così vasto da contenere moltitudini viene ridotto a uno pacificato e predato.

Vorrei concludere con ciò che dovrebbe essere un buon progetto di architettura secondo un architetto vincitore del premio Pritzker nel 1980:

“Ogni opera di architettura che non esprime la serenità è un errore.”

Eppure architetto, non le pare che manchi qualcosa? Acc. è vero ecco, così finisce: 

BUON NATALE E BUONE FESTE

M. A. Laugier “Essai sur l’architecture” 1755.
P. Aina “Omaggio a Aldo Rossi”.
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