UCTAT Newsletter n.28 – novembre 2020
di Fabrizio Schiaffonati
Philippe Daverio in una lectio magistralis tenuta al Teatro Scientifico del Bibiena a Mantova il 16 settembre 2011 intitolata “Il paesaggio della modernità”, con la sua caustica espressività tracciava una netta demarcazione tra Architettura e Real Estate. Avrebbe potuto apparire inconsueta questa sua opinione, lui così acuto e mondano, aperto alla curiosità di ogni manifestazione, non solo artistica. Una distinzione, la sua, che avrebbe potuto richiamare quella idealistica di Croce tra architettura ed edilizia. Ma non era così, il suo punto di vista voleva indicare quel che intercorre come differenza tra opere concepite per la permanenza (ben inteso, sempre relativa) e merce di consumo. In questo senso l’edilizia crociana ha una sua povera nobiltà (si pensi alla tradizione), mentre il Real Estate è consumo allo stato puro, uso e getta seppure di un bene semidurevole. Un investimento sovrastato dal valore astratto del denaro, disancorato da un bisogno reale; può vivere di per sé stesso, come bilancio finanziario, anche vuoto. Si ricordi le torri di Ligresti. Una produzione di merce anche scissa dal suo uso. Come nel caso di altre bolle finanziarie.
È evidente che tutto ciò cambia molto il paradigma dell’architettura come bisogno, anche quando speculazione edilizia (come è quasi sempre stato).
Partirei da qui per argomentare dell’architettura di Milano: una forma di colonizzazione ormai esplicita del Real Estate, sotto l’egida di una mondializzazione che alla fine non sembra dare i frutti sperati. Soprattutto coi tempi che corrono.
Non c’è dubbio che un tema fondamentale del giudizio sull’architettura è sempre stato il suo inserimento nel contesto urbano. Come pure nel paesaggio nel caso di opere isolate. Un dibattito che ha attraversato la storia dell’architettura. In epoca più recente i casi sono innumerevoli. Dibattiti e diatribe che si sono trascinati per anni. Alcuni, a caso e disparati: la Stazione di Firenze, l’uscita dagli Uffizi, Les Halles a Parigi, l’IBA di Berlino. Quando poi con il tema delle preesistenze ambientali la contestualizzazione del progetto è diventata d’obbligo; almeno come enunciazione, anche se poco e mal praticata come dimostrazione.
Proprio qui emerge la sostanziale indifferenza al problema da parte del Real Estate. Un approccio che per ragioni endogene porta il capitale investito ad essere autoreferenziale, cioè a non essere in grado di intrattenere un rapporto dialettico col contesto sociale. Un rapporto che si manifesta per tanto impositivo, dall’esterno, calato dall’alto. Dove vige la regola dell’”ipse dixit” dell’archistar di turno, per tagliare la testa al toro.
Il problema principale della contestualizzazione è invece certamente quello del rapporto con lo spazio pubblico, che è la dialettica della città stessa. È la città come relazione tra manufatti e spazi, tra luoghi pubblici e luoghi privati. Ma non a posteriori, ma a priori come fatto collettivo di condivisione e di costruzione.
Il Real Estate ribalta invece l’approccio. Impone la condivisione conformistica, e ci riesce benissimo attraverso una comunicazione univoca che è quella del consumo con tutte le forme suadenti, della pubblicità e dei media. Diversamente non si capirebbe l’assenso così acritico per tutto quanto passa il convento: piazza Aulenti, City Lige, piazzetta Liberty, ecc. L’icona dell’architettura sovrasta il progetto urbano quando non lo nega del tutto. Un ribaltamento della piramide dei valori. Che non può che determinare alla fine anonimia, come appunto la omologazione unidimensionale dei luoghi. Dall’international stile all’international space.
Ragionamenti derivati: latitanza e complicità della politica, assenza di regia della municipalità, connivenza dei media, subalternità degli “architetti del principe”.
Così Milano celebra le sue sorti progressive. Un grattacielo là, un altro qua, erodendo il patrimonio della sua storia e ipotecando il proprio futuro.