Conversazione sull’identità urbana

UCTAT Newsletter n.53 – febbraio 2023

di Martino Mocchi

«La città non è solo un insieme di mattoni ma è quella strana cosa che sono le relazioni tra le persone». Italo Calvino

«Un paese, una città vuol dire non essere soli, sapere che nella gente del luogo, nelle case in quella terra, c’è qualche cosa di tuo, che anche quando non ci sei resta lì ad aspettarti…». Cesare Pavese

«Le città dovrebbero essere fatte in modo da proteggere i propri abitanti e nello stesso tempo renderli felici». Aristotele

Si è spesso detto che ogni luogo si caratterizza per un genius – “spirito”, come è stato tradotto il termine. È possibile dire, allo stesso modo, che ogni luogo abbia un’“anima”? Non si tratta naturalmente di una questione lessicale, tantomeno teologica. Piuttosto intuitiva: Istanbul, Marsiglia, Dublino hanno un’anima. Si può dire lo stesso di Cortina o di Zurigo? E se è possibile intuire questa differenza, da dove nasce? Su che cosa si basa?

Una risposta personale mi porta istintivamente a quelle esperienze che hanno costruito nel mio immaginario l’anima dei luoghi citati. Pamuk, Izzo, James Joyce (quest’ultimo, peraltro, ha deciso di trascorrere l’ultima parte di vita proprio a Zurigo…). Esperienze artistiche che hanno codificato delle chiavi di lettura, dato forma ai luoghi stessi.

Ci sarebbero molti altri esempi, naturalmente, che attingono alla pittura, alla fotografia, alla musica. E che porterebbero a interpretare l’anima come conseguenza dello scambio tra il luogo e le sue “narrazioni”.

Particolarmente in ambienti complessi come le città, questo segnala l’evidenza di una unità di significato che permane sullo sfondo, a fronte di una molteplicità di letture parallele, e anche antitetiche, che possono emergere in primo piano. Le periferie, i parchi, i monumenti. Percorsi metafisici – animistici? – all’interno degli spazi urbani…

Ho parlato di questa questione – della città e della sua anima – con mio papà [Mario Mocchi, architetto] e mi sono reso conto che tra tutti i punti di osservazione del tema ce n’è uno che si stacca dagli altri, si pone su un piano strutturalmente diverso: è quello dell’architetto. Il riferimento al progetto come strumento operativo, e il conseguente sguardo proiettivo che esso genera, non prevede infatti alcuna possibilità di contemplazione – non prevede un approccio narrativo, appunto. «Pasolini o Sironi possono esprimere il dramma delle periferie, l’architetto no».

Quello dell’architetto non può essere un riferimento astratto, ma un processo di trasformazione concreto, che ridefinisce le relazioni tra forma del luogo e modi di vita di chi lo abita. Un processo che include una direzionalità, e con essa una valutazione di merito. La dimensione del “bene” e “male” – gli aspetti più propriamente teologici dell’anima – tornano a rappresentare delle variabili fondative: assumendo il progetto (e non può che essere così) come possibilità di intervento in positivo, «la dimensione etica ed estetica non possono essere separate. Non si legittima una architettura per aver dato la casa a chi non ce l’ha, ma neppure per il fatto di essere un bellissimo oggetto spettacolare».

La deriva che ha accompagnato l’affermarsi della città contemporanea potrebbe forse nascere proprio dalla rottura di questa alleanza?

«La città antica classica è una grande casa, a cui fa da contraltare la casa intesa come piccola città. L’idea di architettura è quindi contenuta in quella di città: tra architettura, città e paesaggio c’è una continuità di rapporti spaziali a cui corrisponde una continuità di rapporti nei tempi della vita quotidiana. La bellezza che oggi riconosciamo alla città antica deriva proprio dalla percezione di questo senso di necessità delle sue forme».

Pensando a Milano, alle sue più recenti trasformazioni, è forse proprio questo “senso di necessità” a venire meno. L’idea di una forma dei luoghi che possa sostenere la complessità delle forme dell’abitare tende spesso ad appiattirsi nelle immagini esclusive (ed escludenti) di una middle class modaiola, poco aperta ad accettare la diversità – se non per esigenze di facciata.

Si tratta di una riflessione all’ordine del giorno anche in relazione al tema della casa, che – a fronte del costante aumento dei prezzi di vendita e degli affitti – rischia di diventare un elemento che proibisce l’accesso alla città a un’utenza sempre più ampia, che progressivamente “non se la può più permettere”.

«Nella città antica, era la stessa sopravvivenza a richiedere solidarietà tra individui e famiglie, rendendo necessaria una mescolanza di modi diversi di lavoro e di vita. E come conseguenza, il vivere in una società integrata generava la volontà a partecipare alla vita della città».

È possibile oggi recuperare questa dimensione? Operare attraverso il progetto per coniugare le varie tendenze dell’abitare e salvare la cultura urbana?

«Tra storicismi e ipermodernismi c’è una terza via, un’idea di architettura che sta dentro alla contemporaneità e cerca nei luoghi le proprie ragioni. Un’idea che assume la città dispersa, destrutturata, acentrata come suo oggetto e prova a conoscerlo meglio proprio nei suoi aspetti contraddittori, eterogenei, ma anche per fortuna dinamici.
Quello che dobbiamo cercare è un principio implosivo, catalizzatore, verso un quadro di organizzazione ‘multipolare’ dello spazio, in cui il rapporto tra centro e periferia si trasforma nel rapporto tra centralità storiche e nuove centralità. Ogni nuovo intervento rappresenta un’opportunità per perseguire questa strategia, e in particolare quei temi di progetto come gli spazi collettivi, le infrastrutture, i centri per il commercio o il tempo libero».

Di nuovo, considerazioni che si legano a tanti temi al centro del dibattito cittadino: come quello della rigenerazione delle periferie, dell’urbanistica tattica, del verde come motore delle grandi trasformazioni urbane – scali ferroviari e Olimpiadi 2026 su tutti.

«Il problema non è certo il cambiamento. Anzi, è forse la stasi il rischio più grosso per la città. Quello che si tratta di capire è se i nuovi spazi generati dalle trasformazioni siano ancora in grado di esprimere, tipologicamente, il senso dei luoghi. Di afferrare il fondamento dell’abitare come nuova corrispondenza tra forme formate dello spazio e forme culturali dei suoi abitatori. Di recuperare, attualizzandolo, il senso profondo, antico, della città in quanto luogo di coesistenza, di implosione, di una serie di ragioni esterne, di una molteplicità di eventi».

Recuperare e dare forma all’anima della città, insomma…

«C’è una quinta dimensione, oltre alle tre euclidee e quella del tempo, che è la dimensione della memoria. I luoghi si riconoscono non per successione di confini ma per sequenza di elementi discreti. Costruire percorsi della memoria può contribuire a risolvere il problema della relazione, garantendo la riconoscibilità delle forme dei luoghi come sequenze, pur variabili, all’interno di confini in costante divenire».

Mi sembra una buona conclusione. Forse giustamente secolarizzata, dato il tempo che stiamo vivendo…

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