UCTAT Newsletter n.48 – settembre 2022
di Martino Mocchi
Innanzitutto – e non posso che cominciare così avendo attraversato da poche settimane la fatidica soglia degli “anta” – viene da chiedermi come mai il mio parere sia stato sollecitato per una newsletter che si propone di fare emergere il punto di vista dei “giovani” su Milano.
Diversi amici, che hanno imboccato percorsi lavorativi differenti dal mio, hanno abbandonato da anni la qualifica di “junior”, misurando al contrario la propria “seniority” professionale con titoli quali “head of”, “executive”, “leader”, “expert”.
Ma è cosa nota: i tempi di crescita dell’accademia sono diversi da quelli del mondo esterno… sarebbe giusto porre questo tema al centro di un interrogativo critico. Specialmente oggi, all’indomani di una riforma ministeriale che prova a ridefinire la figura del “giovane ricercatore”. E che, se da un lato ha l’indubbio merito di tentare una razionalizzazione delle forme del precariato e un accorciamento dello “stallo” post-doc, dall’altro rischia di generare un possibile effetto boomerang. Con l’interruzione forzata di carriere avviate, la difficoltà di portare avanti progetti di ricerca, la conseguente perdita di opportunità da parte dei giovani e delle stesse università.
Particolarmente grave, il fatto che questo dibattito sia passato in sordina proprio a ridosso dell’ingente finanziamento del PNRR, con l’enorme crescita nella capacità di arruolamento che esso comporta.
…
Ma al di là di questo incipit di getto, che lascia volutamente aperti degli spunti per eventuali future considerazioni, mi affido alla convinzione di poter esprimere un punto di vista “giovanile”, pur non essendo veramente giovane, e vengo al tema.
Pensare di interpretare la relazione tra i giovani e la città di Milano attraverso il filtro della cultura non è cosa semplice. L’idea di un legame forte tra cultura e territorio, in grado di generare partecipazione tra i giovani, porta immediatamente alla mente una serie di immagini che affondano in un passato “mitico” (come forse tutte le cose che non sono state vissute). Il tempo della cultura del “circolo” (ACLI, ARCI), dove l’elemento culturale è pretesto e occasione per avviare percorsi assistenziali, di socializzazione, di condivisione. Poi la cultura attivistica e fondativa che ha animato la stagione delle associazioni e dei centri culturali (su tutti la Casa della Cultura), nelle fumose e notturne aule sotterranee. Infine, quelle “foto di gruppo” di artisti e intellettuali sparse nei bar della città (come Gattullo o il Bar Basso), testimonianza del luogo fisico come motore di scambio e di interazione, da cui hanno preso forma alcune delle esperienze culturali più rappresentative della nostra tradizione – milanese o nazionale che sia.
Anni, insomma, in cui la cultura era orientata e sostenuta da ideologie precise, che partivano dal macro-scenario per riflettersi a livello locale nei dibattiti nei quartieri. Una cultura “sociale”, in grado di sensibilizzare e schierare, con una presa particolare proprio sul pubblico dei giovani, come dimostrano i tanti ruoli che essi hanno avuto nella contestazione.
Con il tramonto di questa fortunata stagione, e l’affermarsi di un nuovo modello che di fatto “libera tutti” – vuoi per l’incapacità di controllo politico, intellettuale o tecnologico dei giovani da parte dell’establishment – viene da chiedersi se sia ancora possibile riconoscere all’interno della città dematerializzata e delocalizzata qualche traccia di quel rapporto. Se veramente l’immagine del “nuovo giovane” abbia perso del tutto interesse per la cultura, o se invece proprio a partire dalla cultura sia possibile individuare degli stimoli per reinnescare delle dinamiche di affezione e di investimento verso il territorio.
Per provare a (non) rispondere a queste domande vorrei raccontare tre esperienze che mi sono capitate – casualmente e senza premeditazione rispetto a queste riflessioni – nelle ultime settimane.
1. Nel corso di una passeggiata pomeridiana domenicale, da poco ripresomi da un’influenza stagionale, mi sono imbattuto nella casa museo Boschi Di Stefano. Un luogo che da tempo conoscevo, ma che non avevo mai avuto modo di visitare. All’interno di un elegante quanto insospettabile appartamento borghese, ho percorso un viaggio nella grande arte italiana del Novecento, illustrato dalle opere di alcuni dei suoi autori più rappresentativi – da Sironi a De Chirico, da Manzoni a Fontana. Al piano terra, uno spazio adibito a ospitare mostre temporanee. Ingresso gratuito.
2. Qualche sera più tardi, invitato da un amico, sono stato spettatore di un happening a me sconosciuto, chiamato “Mazurka Klandestina”. (Ho saputo solo in seguito che l’evento si svolge regolarmente in diverse città italiane, anche a vantaggio di altre forme di ballo). Verso le 22, in una delle piazze più suggestive del centro di Milano, si è radunato un gruppo di circa 150-200 persone che, al suono della musica riprodotta da una cassa bluetooth, hanno danzato fino a notte inoltrata. Una sorta di flash mob, semplicemente poco flash… Finita la musica, la piazza è tornata all’antico silenzio delle sue pietre, senza alcun segno di sporcizia o di degrado.
3. Pochi giorni fa, leggendo un post su LinkedIn, ho saputo della possibilità di prenotare un biglietto gratuito per una visita alla nuova sede della Fondazione Rovati, in Corso Venezia. Uno spazio dedicato a un difficile quanto riuscito connubio tra arte etrusca e arte contemporanea, all’interno di ambienti estremamente suggestivi – particolarmente inaspettato il piano ipogeo progettato e allestito da Mario Cucinella – che includono un bistrot al piano terra e un ristorante stellato sulla terrazza al terzo piano.
Si tratta di esperienze tra loro differenti, promosse da attori a loro volta molto differenti, che però proprio per questo mi pare manifestino il segno di una energia ancora pulsante, a tutti i livelli, che anima e rinnova la città. Eventi culturali che uniscono la ricchezza del territorio con un’inedita offerta tecnologica, generando nuove possibilità di contatto, di comunicazione e partecipazione.
Per usare termini noti, si tratta di occasioni “liquide”, “accessibili”, “fluide”. Come la musica dematerializzata riprodotta dalle casse bluetooth, appunto, o le capacità organizzative delle comunità social. Come le iniziative gratuite offerte dalle case museo (e dalle molte altre realtà presenti sul territorio). Come la capacità di unire in un unico luogo arte, moda, cucina, in un continuo sconfinamento tra modernità e antichità.
Una mappa variegata, quindi, certamente meno controllabile di un tempo, che definisce delle dinamiche circolari, dove l’evento sul territorio è solo un passaggio all’interno del percorso che prosegue negli scambi sui social, generando comunità attive, costruendo partecipazione e aumentando di conseguenza l’attesa per eventi futuri.
A partire da queste considerazioni, il problema su cui mi pare opportuno riflettere non è tanto quello della quantità dell’offerta culturale, né tantomeno della sua qualità. Quanto piuttosto quello della possibilità di “tenerla insieme”. Il problema, in altre parole, non è nella mancanza di interesse dei giovani verso la cultura, quanto nell’incapacità della cultura di farsi conoscere e di comunicarsi adeguatamente ai giovani.
Laddove questo meccanismo funziona, ossia ogni volta che eventi culturali sono comunicati in modo efficace, la presenza dei giovani è garantita. Non solo come svogliati spettatori, ma come attenti osservatori, rispettosi dell’offerta artistica e dei luoghi in cui si inserisce. Anzi, spesso promotori di una nuova sensibilità, come quella legata ai temi ambientali.
Non si può pensare che Milano sia una città che offre tante occasioni culturali ai giovani per il solo fatto che propone eventi a loro dedicati. Per essere realmente “per” i giovani, tali eventi vanno conosciuti, illustrati e resi comprensibili ai giovani. Vanno posizionati e orchestrati all’interno di un quadro consapevole, che si ponga l’obiettivo di far crescere il giovane, di costruire per lui dei percorsi, fidelizzandolo a determinate proposte e stimolandolo a scoprirne di nuove. Dandogli eventualmente la possibilità di essere lui stesso promotore di nuove iniziative.
E questo, si intenda, non riguarda solo la semplicistica immagine dell’adolescente che necessita di emanciparsi dalla cultura di TikTok, ma interessa un variegato pubblico intergenerazionale (che sfocia dalla categoria del giovane sfiorando quella del “giovanile”) caratterizzato da valori, interessi, esigenze differenti.
Un’azione complessa, dunque, con importanti ricadute sociali, che non può essere lasciata a carico dei singoli operatori culturali (anche se dai singoli operatori culturali dovrà naturalmente essere sostenuta e animata) ma che dovrebbe essere coordinata e promossa a livello metropolitano.
Forse, sarebbe sufficiente guardare le immagini dell’aeroporto di Bresso durante la data milanese del Jova Beach party (poco beach ma molto party, ovviamente). Per renderci conto che lì, a fronte di una buona comunicazione, i giovani ci sono. Certo, con la scusa di divertirsi…
