UCTAT Newsletter n.48 – settembre 2022
di Giulia Capodieci @la.seccatrice
Quando ho accettato di scrivere questo articolo sulla mia prospettiva di Milano, da giovane cittadina e professionista del settore socio-culturale, ho pensato di accompagnarvi in un tragitto tra quelli che sono i progetti che trovo più stimolanti in città. Vi avrei portatə allo Spazio Maiocchi o da Assab One, nella stamperia di A14 o nello studio dei designer di Dopo Lavoro. Vi avrei consigliato di partecipare a un’edizione del Danae festival o di Lino, festivalino di letteratura indipendente. Vi avrei detto di entrare in una delle tante e resistenti librerie indipendenti o di fare un giro tra i progetti agricoli di Cascinet o di Terzo Paesaggio o, ancora, di fare un giro da Pop per partecipare a una delle discussioni transfemministe.
Poi mi sono accorta che, in questo zigzagare, mi muovevo con la forza di chi gode di molti privilegi e ho iniziato a ripensare a queste strade percorse per vedere quando rispondevano a una visione di bene comune, quanto fossero accessibile queste proposte, quanto fossero permeabili queste bolle culturali. Per cui, invece di perpetuare questa immagine di Milano come città cool, europea, viva, generosa, ho pensato di scrivere una lettera a questa mia città.
Cara Milano, è un po’ di tempo che siamo in crisi. Più o meno da quando hai fatto quel corso di personal branding, da quando progetti come Macao o Remake sono stati sgomberati.
Eravamo tornate a frequentarci dopo il fermento delle elezioni di Pisapia, dopo aver visto intere piazze sprigionare energia, sognare in grande, esprimere bisogni. Dopo aver visto aprire luoghi lasciati inutilizzati per metterli a disposizione di chi avesse idee e voglia di fare. Anche senza bisogno di capitalizzare ogni metro quadro.
Mi ero presa una cotta per te perchè parlavi di beni comuni, progettazione dal basso, bilanci partecipativi. Ero innamorata di una visione politica che si metteva in ascolto, che agiva come agente generativo di possibilità.
Poi sono arrivate le week, la nostra prima crisi.
Dalla bellezza di vedere alcuni momenti dell’anno vestirsi a festa – ora col suono di un pianoforte ora col fruscio delle pagine dei libri – mi sembra tu ci abbia preso un po’ troppo la mano e il tuo calendario sia una raccolta bulimica di contenuti.
Siamo andate in terapia e ti ho chiesto: Milano mia, ma fuori dal “prendiamoci una birretta”, fuori dall’eventificio, fuori dal wannabe, c’è spazio per luoghi e tempi dove coltivare visioni e idee di futuro?
Perchè occuparsi di cultura non vuol dire rispondere “si” a un save the date, farsi un selfie alla prima della scala o al festival delle serie tv. Una città che dice di dare spazio alla cultura agevola l’osmosi con tuttə lə cittadinə – che abitino nei quartieri cool o nelle periferie con cui non ha mai imparato a dialogare. Una città che frena le spinte immobiliari per avere una piazza e un giardino comunitario in più, e che libera spazi dove fare arte pubblica fuori dalle normative legate all’affissione pubblicitaria e commerciale e non si accontenta di aver colorato un murales per parlare di rigenerazione.
L’abbiamo visto durante il lockdown, svuotata dai tuoi servizi, aperitivi e attività sei diventata un non luogo. E quelle stanze o abitazioni troppo costose in cui stiamo stretti, noi giovani, di colpo non valevano le (troppe) ore lavorate per potercele permettere.
Eppure, cara Milano, non possiamo dire tu abbia imparato molto da una pandemia e due lockdown. Hai ripreso a correre, hai fatto la voce grossa e detto che siamo qui per L-A-V-O-R-A-R-E, non hai sostenuto quei progetti di cultura indipendente che, nonostante tutto, hanno resistito e non annaffi gli alberi di cui declami le piantumazioni.
Cara Milano, ho sempre pensato di te che avessi un’innata propensione alla mescolanza, all’accoglienza, al dare spazio a diverse identità e discendenze.
Perchè non coltivare questa propensione e non trasformarla in pratiche continuative? E allora, cara Milano, spegni un attimo i riflettori, rimuovi i filtri dei tuoi selfie, prendi una pausa e ascolta. Ci riproviamo?
