UCTAT Newsletter n.28 – novembre 2020
di Martino Mocchi
La digitalizzazione del progetto ha rappresentato uno degli stravolgimenti più rilevanti nel modo di concepire l’architettura negli ultimi 30 anni. Un radicale cambio di paradigma, che sta segnando una linea di demarcazione inequivocabile tra “prima” e “dopo”. Con dei significativi problemi di “aggiornamento” – sia di tipo tecnologico-informatico sia soprattutto di competenze e di visioni – che stanno ridefinendo i rapporti tra piccoli e grandi studi professionali, Enti amministrativi e dell’istruzione. Il dibattito in corso tra detrattori e sostenitori del BIM rappresenta bene la difficoltà: ponendo a confronto una nuova generazione, sostenuta da una rapidità esecutiva senza precedenti, e una classe forse “sorpassata”, ma ancora protagonista di un momento storico-teorico per alcuni versi irripetibile, che ha segnato in modo indelebile la riflessione architettonica contemporanea.
Per non assumere posizioni inutilmente riduttive, si vorrebbe partire dalla trasformazione cognitiva implicata in questo passaggio. L’appiattimento del mondo sulle due dimensioni dello schermo sta infatti producendo un impoverimento delle categorie percettive e emozionali coinvolte nella sua fruizione. Laddove il percorso del disegno richiedeva all’architetto la messa in gioco di una propria esperienza corporea, che anticipava la qualità dello spazio progettato, oggi la possibilità di svolgere ogni operazione progettuale attraverso il “click” uniforma la risposta fisiologica, facendo emergere un modello spaziale semplificato e puramente “estetico”.

Se da un lato è indubbio che l’informatica sta mettendo a disposizione degli efficaci e inediti strumenti di rappresentazione dello spazio, dall’altro lato non bisogna quindi perdere l’attenzione per le conseguenze che tale processo determina. Pena l’esclusione dai riferimenti del progetto di quel concetto di “vissuto” – come lo definiva Paci – determinante per comprendere le relazioni tra gli utenti e i loro ambienti nei reali percorsi dell’abitare. Una dinamica che rischia di accrescere la frattura tra il visivo e il resto del percettivo, riducendo la qualità del progetto alla semplice piacevolezza della sua “immagine”.
Un’occasione di riflessione su questo tema è rappresentata dalla mostra che si è tenuta in ottobre e novembre presso la Biblioteca Braidense, dedicata a uno dei più celebri disegnatori e incisori della storia moderna: Giovanni Battista Piranesi.
Le opere esibite – perlopiù acquaforti – tentano di ripercorrere l’excursus artistico dell’architetto veneziano, a partire dalla sua attenzione per il decoro fino alle più famose vedute di Roma. Le stampe, realizzate da Piranesi stesso, si fanno ancora oggi testimoni di una assoluta qualità, sia compositiva sia di scelte tecniche e di materiali.
Particolarmente significativo il ciclo “Invenzioni Capricci di Carceri”, realizzato tra il 1745 e il 1750, in cui Piranesi dà forma a spazi immaginari, dove l’atteggiamento descrittivo lascia ampiamente spazio a una rappresentazione emozionale e atmosferica dei luoghi. Le enormi stanze interne delle prigioni sono rappresentate attraverso prospettive ambigue, che pongono l’accento su strani oggetti di tortura, sbuffi di vapore, interminabili scalinate apparentemente senza meta. Quadri di dantesca memoria, che hanno l’ambizione di restituire scene mentali più che spazi possibili. In un intreccio di piani, sequenze, pieni e vuoti che assumono significato emotivo ben prima che geometrico. Rendendo chiaramente conto di come la rappresentazione possa veicolare l’espressività emozionale dello spazio, farsene in un certo senso condizione.
E pare di vederlo, Piranesi, intento a graffiare e corrodere tavole di metallo con l’ausilio dell’acido, immerso nell’odore del mastice e della cera. In un “fare” il disegno che nasce dalla tecnica della bottega, da un movimento e da un atto produttivo ben lontano dalla pomposità aristocratica e statica di alcuni suoi ritratti che ci sono stati tramandati.
Quello che emerge da queste tavole è la capacità della linea di farsi volume, diventare espressione e veicolo di una profonda comprensione dello spazio, che muove dalla costruzione dell’umidità e del calore, dalla confusione, dalla sovrapposizione degli stimoli e delle impressioni percettive.
Una consapevolezza a cui il moderno progettista, armato di touchpad e di mouse, non può e non deve rinunciare: affinché le nuove tecnologie diventino veramente un’opportunità, e non il debole surrogato di un “fare” che ha perso la propria ragion d’essere.
