Intellettuali o intelletto

UCTAT Newsletter n.55 – aprile 2023

di Marino Ferrari

Mi intrattengo, come sovente faccio, nella provocazione intellettuale. Mi chiedo sovente quale sia o possa essere il significato di intellettuale; colui che usa l’intelletto e che a sua volta riesce a separare le intelligenze per meglio utilizzarle, e di volta in volta attribuire loro caratteri diversi ed opportuni. Secondo il momento e secondo le esigenze espresse dalla cultura in auge. Siccome l’uomo ha dato il nome a tutte le cose, animate e non, è corretto che anche gli intellettuali abbiano un nome. Il nome permette alla socialità di intraprendere specifiche relazioni. Infatti, occupandoci, chi più e chi meno, della società nel contesto in cui viviamo, ciascuno investe con la sua intelligenza gli aspetti che significativamente la riguardano; ed in una società complessa ove la divisione dei saperi coincide con quella dei lavori, di conseguenza , si hanno architetti, architetti urbanisti, politici in veste di architetti e urbanisti, sociologi e lettori di fenomeni umani più o meno radicati (brutto termine, le radici appartengono alle piante…) nel loro contesto, ma anche semplicemente “desiderosi di contribuire. Il radicamento viene dalle mansioni svolte: più si è affezionati alla propria mansione e più matura il radicamento ma, forse, e ho qualche perplessità, viene meno il rapporto con l’intelletto. Perché l’intelletto nella sua purezza e bellezza viene contaminato dalla materialità degli eventi ed in particolare dalla materialità “dalle forme che hanno preso le idee. Purtroppo, mi è faticoso affrancarmi dalla materialità ponendola in un ambito puramente speculativo, cercando di affrontarla per il suo “essere così come è”. Ogni qual volta osservo una elaborazione che implichi la socialità (e a dirla bene lo sono tutte) cerco di capirne il “motivo ispiratore”, il paradigma, la ragione propria anche se non immediata. Purtroppo, vengo investito dalle forme del linguaggio, che scorrono nella quotidianità galleggiando sull’assenza di radicamento, quello vero, intrinseco. Nella così detta pianificazione urbana i progetti si rappresentano inevitabilmente, ad esempio e oggi in particolar modo, con la presenza del “verde”, messo negli spazi lasciati dalla cementificazione senza un criterio di equilibrio ambientale; importante è dimostrare che vi è nel progetto una attenzione formale specifica e là dove non vi fossero spazi liberi vi sono le pareti e i tetti. Il “verde” che avvolge gli edifici totalmente e definitivamente l’ho trovato su alcune piramidi Maia. Equilibrio ambientale: e qui mi sento trascinato non solo dal divenire delle cose, ma dalla “pazienza culturale” (che di per sé esprime anche un limite), poiché sostengo che l’equilibrio ambientale ha una tale concretezza che va ben oltre le immaginazioni progettuali. È il frutto di un continuo ed ininterrotto “respiro della spiritualità che la Natura alita verso di noi”; che significa lasciare per ultimo tutto il patrimonio tecnicistico, accademico ed altro che ogni volta togliamo dai cassetti della memoria e delle attitudini per lasciarsi avvolgere da questo spirito e respirarlo profondamente.

Ciò nonostante, è anche possibile soffrire per questa contraddizione pur avendone chiari tutti i presupposti, come qualsiasi problema. Ma è forse più naturale abbandonarsi alla complessità trascinata dalla contraddizione sapendo, o illudendosi, che essa risolva sé stessa passando sopra di noi. Affidarsi alla intellettualità senza dubbi è una forma di astrazione maggiormente rivolta ai quadri teorici supportati ed illusi dalla retorica; ma anche la razionalità del pensiero porta con sé grandi opportunità strategiche. Di fronte ad un intervento urbano, non è forse maggiormente liberatorio porsi nella domanda semplice: perché, che cosa è, cosa vuol dire, a chi serve un tale intervento? Sapendo benissimo che la risposta immediata, oggi, sarebbe” rigenerazione”! Ecco, la rigenerazione di cui si parla, ad esempio, ha suscitato una sia pur modesta reazione “intellettuale”? si dirà, ma è stata definita da norme e leggi, pertanto è sufficiente “agirla”. Nella ricerca di una sua precisa materialità. Scevra da ogni implicazione intellettuale, da ogni coinvolgimento emotivo sia pure ispirato da contraddizioni “sociali”. Poi veniamo coinvolti dalla “gentrificazione”, termine inventato da una sociologa, la quale definendone i contorni, si è richiamata ai processi in atto, in quel momento, i quali se ben letti, sono di un classismo esasperato. Ed il risultato, comunque, è la riformulazione delle classi sociali, il mescolamento, l’attribuzione di mansioni ogni volta differenti, l’accorpamento ben distante da qualsiasi forma partecipativa, non dico al potere, ma alla semplicissima definizione e soddisfacimento di una modesta quantità di bisogni primari e fondamentali. Ma si sa che l’uomo ha dato i nomi a tutte le cose senza sapere che cosa effettivamente le cose fossero. E ha reiterato l’invenzione dei termini, affettandoli, atomizzandoli e qui, sì, direi con grande approccio alla dinamica intellettuale; una grande astrazione sollevata dalla realtà ma fatta opportunamente per trasformarla sia nella sua materialità, sia nelle sue percezioni.

E vien spontaneo sia per affinità (poco) elettive che per conseguenti logiche fare riferimento alla città, alla sua pianificazione, alle sue costruzioni che di volta in volta, vengono classificate proprio utilizzando l’atavico criterio del “dare alle cose un nome”. Sostenendone il significato con evanescenti poetiche ed anche riferimenti alla natura: il seme, la foglia, le ali. Miserie umane che sono tutte collocate nel grande ed inevitabile sistema del mercato, delle merci, dello scambio e di tutto ciò che con la Natura ha da spartire solo la sua compromissione definitiva. Ed è inevitabile come tutti gli artifici. Mi piace leggere i delicati riferimenti alla Architettura quale atto risolutivo dei problemi sociali: forma della merce, inevitabilmente. Ma anche una bella merce può sollevare gli spiriti e rendere felici. Anche se fuori diluvia. Potremmo considerarci dentro il sistema dei vicoli ciechi, tanti in apparenza belli ma alla fine senza uscita. Come le nostre menti i cui intelletti, i cui saperi elaborati e macinati nella quotidianità, si introducono ma poi si assopiscono sino alla evaporazione. Dunque, se proprio ritengo che il “costruire” secondo i dettami dell’Architettura si renda necessario per assolvere e risolvere i problemi ormai incancreniti dell’umanità, mi piacerebbe tanto, ritenendolo inderogabile, definire almeno quali sono questi “problemi reali”. Sono forse quelli di una abitazione ad attico con vista sulla città (clamorosa e ineguagliabile) dentro ad un vergognoso (per la natura, mi vien ben suggerito ovviamente) bosco verticale? Suvvia. Innanzitutto, i bisogni reali non sono quelli indotti da tutti, tutti veramente, i meccanismi della comunicazione di mercato (in termini italianizzanti). In prima istanza l’abitazione, luogo dove vivere dignitosamente con il necessario per la sopravvivenza; e poi il lavoro. Ma quante ricerche sull’abitazione si son fatte? Ohibò, ovunque vada, indipendentemente dalla ricchezza e dallo sfoggio di materiali, l’abitazione è pur sempre la stessa, da quando l’uomo è uscito dalle caverne, soggiornato sulle palafitte, costruito un dignitoso ambito tra le mura di terra e paglia cotte al sole ed in attesa, ovviamente della benedizione Tecnologica, ma nel frattempo costruendo le basi della città come organismo realmente sociale. Ah, la tecnologia, quale musa, quale divinità, quale soluzione a tutti i nostri problemi sociali; infatti, è sufficiente collegarsi ad essa per avere una visione meravigliosa della realtà. Purtroppo, e senza volerlo, il pensiero stesso stabilisce i limiti dell’intelletto, della ragione. E ne consegue (le implicazioni territoriali della complessità conoscitiva e delle sue relazioni con il lavoro) che la complessità vorrebbe trovare soluzione nelle forme belle del costruire. Compito assegnato all’esperto e da questo soddisfatto. Lasciando le condizioni materiali e sociali (limitiamoci a questo altrimenti dovremmo elencarle veramente tutte come nei migliori minestroni) a quel che sono. Le piante, gli arbusti come gli esseri animati, dicono che comunicano tra di loro, mantenendosi in equilibrio; l’equilibrio è il “carattere” proprio della Natura e la ragione umana non ha confronto. Temo che questo equilibrio non si stato individuato, non siano stati costruiti i presupposti per mantenerlo ed alimentarlo nel tempo. Se la bellezza può salvare il Mondo, senza pietà, ci siamo persi qualcosa (come il primo tempo di un bellissimo film).

Via Crema, Milano.
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