UCTAT Newsletter n.28 – novembre 2020
di Andrea Tartaglia
Le città si evolvono, le città si trasformano, le città si stratificano, talvolta si contraggono e addirittura muoiono. Vi sono città di nuova fondazione, anche recenti, con caratteri identitari chiarissimi (chi non riconoscerebbe Brasilia anche se pensata in un’epoca in cui l’architettura aveva già un linguaggio dominante “internazionale”) e città secolari che invece nelle loro componenti più recenti hanno perso qualsiasi peculiarità e riconoscibilità.
Il così detto modello Milano, comunicato in tutto il mondo sulla spinta dell’ottenimento e del successivo svolgimento dell’EXPO2015, ha proprio nella sinergia tra sensibilità intellettuale e produzione fisica di oggetti, eventi ed esperienze il suo elemento caratterizzante. Milano e i milanesi, secondo questo modello comunicativo erano riconoscibili immediatamente e unici nelle loro caratteristiche.
In effetti nei diversi secoli e nei più recenti decenni Milano si è sempre caratterizzata per la capacità di cambiare, rinnovare ed innovare i suoi elementi caratterizzanti anche dal punto di vista degli elementi fisici che ne definivano la sua struttura. Sono ancora leggibili, infatti, le diverse Milano (ad esempio quella romana, quella degli Sforza, quella ottocentesca, quella della ricca borghesia novecentesca, quella recentissima del design e della moda, etc.). Identità mutevoli e non sempre qualificanti (la Milano da bere era un modello positivo o negativo?). In ogni caso identità chiare che trovavano un riscontro altrettanto chiaro nei fenomeni urbani e architettonici. Si pensi al sistema dei Navigli, alla Milano industriale e ai luoghi immortalati nei quadri di Sironi, ma anche semplicemente al “condominio milanese” cha ha visto coinvolti molti tra i più importanti progettisti del Novecento italiano.
Soprattutto il Novecento è stato un periodo particolarmente fecondo per quanto concerne una chiara definizione di un immagina architettonica locale in grado però di confrontarsi e farsi (ri)conosce in tutto il mondo. Un momento di ricerca interpretato dei diversi autori anche con modalità fortemente diverse ma sempre rivolti verso una innovazione chiara e culturalmente fondata. Pensiamo a due architetture paradossalmente antitetiche ma che rappresentano sicuramente un impietoso termine di paragone rispetto alla attuale città in trasformazione: il grattacielo Pirelli e la Torre Velasca.
Il primo immagine stessa della modernità ma in cui all’estetica si somma la ricerca di innovative soluzioni tipologiche, distributive e strutturali. La seconda invece che persegue una verticalità in cui le soluzioni tipologiche e distributive trovano riscontro in una innovativa rielaborazione di elementi stilistici e compositivi chiaramente legati alla storia. Niente era scontato o semplicemente riconducibile alla categoria di crociana memoria dell’edilizia. Tutto era architettura con lo sguardo proiettato verso il futuro, ma non semplicemente per la scala del progetto ma perché tutto era progetto.
In ogni nuovo condominio si ritrovavano molte delle sette invarianti dell’architettura moderna, ma con esiti differenziati e unici in cui era impossibile confondere Magistretti, con Caccia Dominioni, con Zanuso etc., che però erano anche unicamente milanesi.
Ma oggi è ancora così?
Certamente è difficile valutare fenomeni in atto, la loro qualità, la loro capacità di diventare identitari o meno rispetto all’analisi di fenomeni sedimentati nel tempo e vissuti nella quotidianità.
Vi sono però alcuni elementi su cui riflettere.
I committenti che in passato vivevano a Milano, oggi sono spesso entità quasi astratte (fondi immobiliari, multinazionali etc.) il cui cuore è anche fisicamente molto lontano da qui. Diventa così più facile sovrapporre la trasformazione fisica ad un semplice flusso di valori economici e finanziari di breve periodo. I palazzi che spesso portavano i nomi delle famiglie o delle aziende che li costruivano e occupavano oggi invece sono “marchiati” con i loghi degli affittuari sempre pronti a muoversi verso altri edifici o città come le loro azioni si muovono di portafoglio in portafoglio. In questo senso il committente, che non ha più volto, riprendendo la sagace classificazione di Philippe Daverio, ha meno interesse nell’architettura e certamente di più nel Real Estate. Questo vuoto di attenzione significa però trasferire ai progettisti una responsabilità etica che se poteva essere propria dell’architetto artigiano, ben poco si concilia con la nuova logica delle società di progettazione. Tale trasformazione si evidenzia anche nella recente prassi di valutare la qualità degli studi di architettura rispetto al fatturato annuo. Fatturato che è anche uno dei pochi criteri imprescindibili nelle procedure di affidamento pubblico. Se poi un tempo esisteva anche l’abitudine, talvolta codificata in leggi, di evitare situazioni di possibile imbarazzo e conflitto di interesse, ad esempio vietando agli estensori dei PRG di assumere incarichi da privati nelle città oggetto dello strumento pianificatorio, oppure cercando di selezionare nelle commissioni di ornato figure altamente qualificate ma che non praticavano in modo diffuso l’attività progettuale nel territorio di competenza o non la praticavano del tutto, tutto ciò oggi non è più valido.
Si sta assistendo così ad una omologazione di immagini architettoniche, di soluzioni di facciata che permettono se applicate di ottenere successi nei concorsi, veloci approvazioni amministrative e pubblicazioni sui magazine di costume.
Pochissimi architetti non si sentono sminuiti dal dichiarare apertamente di ricercare nel contesto e nell’esperienza milanese elementi per attivare il proprio progetto (come l’eccezione di Cino Zucchi con Caccia Dominioni). Arrivando al paradosso di situazioni come quando le irlandesi Grafton Architect hanno stupito gli uditori milanesi spiegando e documentando come il ceppo fosse un materiale “tipico”. Anzi, i progettisti cercano spesso di segnalare la discontinuità riferendosi ad una nei fatti sovente irrintracciabile originalità.
Se ad esempio guardiamo all’esperienza dei palazzi alti milanesi per i quali abbiamo identificato come estremi dei possibili approcci progettuali il Pirelli e la Velasca, è evidente questo recente processo di omologazione ed estraneazione dal contesto. Anche i seppur discutibili ma caratterizzanti grattacieli postmoderni di Stazione Garibaldi sono stati oggi ricondotti ad una fredda estetica delle facciate continue in vetro a cui negli edifici non residenziali nei recenti anni a Milano è sfuggito solo Koolhaas con la torre per Prada.
Approfondendo i recenti innesti forse solo il progetto di Pelli per l’edificio occupato da Unicredit trova il proprio senso in una chiara volontà (non per forza condivisibile ma comunque chiara) di dare una nuova struttura all’impalcato urbano. Mentre la maggior parte delle nuove torri (o meglio le loro facciate) sembrano troppo spesso essere esercizi di stile in cui oggetti tipologicamente e concettualmente identici, talvolta isolati ed altre volte strettamente affiancati, vivono per se stessi come città nella città.
Ma come la sequenza casa con giardino affiancata ad un capannone non ha mai trasformato la Brianza in una città, solo il tempo ci permetterà di valutare se i nuovi innesti e le nuove facciate contribuiranno a consolidare e sviluppare l’identità di Milano o invece porteranno ad un suo sfaldamento e a una sua diluizione in un immaginario comunicativo globale senza reali riferimenti ad un contesto fisico vivibile.