La città dell’architettura

UCTAT Newsletter n.53 – febbraio 2023

di Paolo Zermani

È Jorge Luis Borges Borges a ricordare come anche Croce fu colpito da un testo riportato dallo storico latino Paolo Diacono, inciso nella memoria di una epigrafe lapidea, riferito al barbaro Droctulft, giunto a Ravenna per attaccarla e devastarla.

Si può pensare che l’episodio risalga all’assedio della città del quarto secolo.

Il barbaro-scrive Borges- arrivato in Italia dal nord della Germania attraverso un’oscura geografia di selve, guerre e paludi, forse non sapeva che guerreggiava contro il nome romano.

Drocrtulft conosceva soltanto villaggi nomadi e temporanei, regolati dalle vicende belliche e dagli eventi atmosferici, affidati al culto di dei variabili.

“Le guerre lo portano a Ravenna e li vede qualcosa che non ha mai visto, o che non ha mai visto pienamente. Vede il giorno e i cipressi e il marmo.

Vede un insieme che è molteplice senza disordine, vede una città, un organismo fatto di statue, di templi, di giardini, di case, di gradini di vasi, di capitelli, di spazi regolari e aperti.

Nessuna di queste opere, è vero, lo impressiona per la sua bellezza.

Forse gli basta vedere un solo arco, con un’incomprensibile iscrizione in lettere romane.

Bruscamente lo acceca e lo trasforma questa rivelazione: la Città.”

Droctulft abbandona i suoi e combatte per Ravenna.

Il racconto “Storia del guerriero e della prigioniera” si avvale subito dopo di un esemplare contrappunto.

Borges riferisce come sua nonna, nata in Inghilterra e vissuta in Argentina, commentando il proprio destino di “esiliata in capo al mondo”, raccontava di aver osservato un giorno una donna india attraversare lentamente la piazza di un paese.

“Era vestita di due coperte rosse e andava a piedi nudi: i suoi capelli erano biondi (…) Disse che era dello Yorkshire, che i suoi genitori erano migrati a Buenos Aires, che li aveva perduti in una scorreria, che lei era stata presa dagli indios e che ora era la moglie di un capo.”

Borges annota che la nonna rivide questa donna solo molto tempo dopo, mentre, presso un rancho, un uomo sgozzava una pecora: “Come in un sogno passò l’india a cavallo. Si gettò al suolo e bevve il sangue caldo”.

Il rapporto con la tradizione può dunque comporsi anche in modo alternativo e capovolto.

“Mille e trecento anni e il mare-scrive Borges-stanno tra il destino della prigioniera e il destino di Droctulft. Entrambi oggi sono irraggiungibili. La figura del barbaro che abbraccia la causa di Ravenna, la figura della donna europea che sceglie il deserto, possono apparire contrarie. Eppure, ambedue furono trascinata da un impulso segreto, un impulso più profondo della ragione, e ambedue ubbidirono a quell’impulso, di cui non avrebbero saputo dar ragione. Forse le storie che ho narrate sono una sola storia. Il dritto e il rovescio di questa medaglia sono, per Dio, uguali”.

Di fronte ai fenomeni di globalizzazione che hanno interessato anche l’Occidente la conclusione del racconto borgesiano deve farci riflettere sul doppio significato che la tradizione, da sempre, può assumere, ma certo non distrarci nella identificazione di quale sia la genealogia della città a cui apparteniamo.

Questa città è la città europea che, oltre le banalizzazioni prodotte dal Novecento, è una città non necessariamente chiusa, se pure il chiuso ne ha caratterizzato gli itinerari di formazione e di sviluppo, una città relazionata al proprio interno e con il proprio intorno attraverso l’architettura.

La progressiva adesione del nostro corpo sociale ai modelli universali dettati dal grande capitale internazionale, unito a una stolida cecità riguardo le scelte collettive, determina ora una inevitabile irriconoscibilità degli atti di costruzione urbana.

Per rimanere nel contesto italiano l’esempio più prossimo ed emblematico di questa perdita dei riferimenti è certamente Milano.

Questa nostra città straordinaria, una città debitrice a una specifica cultura urbana nata dall’organizzazione strutturale del paesaggio produttivo riassunta dal magnifico disegno leonardesco del Codice Atlantico, è ridotta, nel tempo presente, a rincorrere i modelli obsoleti del modernismo e del postmodernismo capitalista, tale da offrire come proprio biglietto da visita un tristissimo profilo da capitale del terzo mondo arricchito.

Ciò è anche aggravato dalla finta ricerca di una improbabile risarcimento affidato a luoghi comuni e a travestimenti legati alla ormai impronunciabile parola “sostenibilità”, da nulla sorretta perché a nulla appoggiata, se non nuovamente alle necessità impellenti del mercato e della cosiddetta crescita.

L’equivoco si manifesta oggi paventando una modernità inconsistente, prospettando false soluzioni a sfondo ecologico a colossali speculazioni immobiliari, nel miglior caso a paradossali ignoranze.

È accettabile che la città italiana elevabile a capitale, oltreché dell’economia, della cultura nazionale, decada nel baratro di una irriconoscibilità tanto falsa quanto ingenua, a seconda della prospettiva con cui la si osserva?

Così la città sembra, appunto, cieca a sé stessa e risulta invisibile agli occhi non di un barbaro, ma dei suoi stessi abitanti, mentre dovrebbe essere visibile, comprensibile e maestra anche per un barbaro che non sa leggere.

Forse questo processo è dovuto al nostro imbarbarimento.

La città dell’architettura, che attraverso parti si costituisce come fenomeno morfologico apprezzabile, determinando sequenze concretate e rese palesi da strade e piazze, appare oggi ancora quale conseguimento perseguibile e riconoscibile all’identità europea, in opposizione alla liquidità informale mascherata che si vorrebbe riscattata da qualche drappello di grattacieli fuoriluogo e fuoritempo.

Nella città occidentale, nella città europea, di cui l’Italia è sempre stata paradigma, l’architettura deve tornare a esercitare il ruolo privilegiato e responsabile di garante rispetto a una nuova riconoscibilità consapevole mostrando, con la propria qualità autonoma, di saper rispondere alla necessità di continua riforma del nostro progettare.

Monumento a Sandro Pertini, Via Croce Rossa, Fotografia di Stefano Topuntoli, 1991.
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