La formazione dei formatori nella didattica del progetto di architettura

UCTAT Newsletter n.77 – aprile 2025

di Elena Mussinelli

Sono trascorsi 15 anni da quando la legge Gelmini ha sancito l’incompatibilità dell’esercizio di attività libero-professionali con i ruoli di professore universitario e di ricercatore a tempo pieno, consentendo unicamente “attività di valutazione e di referaggio, lezioni e seminari di carattere occasionale, attività di collaborazione scientifica e di consulenza, attività di comunicazione e divulgazione scientifica e culturale, nonché attività pubblicistiche ed editoriali” (Legge 30 dicembre 2010, n. 240, art. 6, comma 9).

Considerando che per accedere a un ruolo accademico – tra dottorato ed eventuali assegni e/o contratti di ricerca – sono necessari mediamente tra i 10 e i 15 anni (anche se spesso si può entrare in aula a insegnare anche prima), vi è ormai una quota crescente di docenti strutturati formatisi unicamente nell’ambito accademico, che svolgono quindi attività didattica essendo del tutto privo di esperienza professionale. Il ricambio generazionale, particolarmente favorito e accelerato negli ultimi anni da vincoli di impiego del Fondo di Finanziamento ordinario assegnato agli atenei, ha inoltre progressivamente registrato l’uscita di scena dei “maestri” del 900 e anche della maggior parte di quei docenti-architetti che alla scuola di tali maestri si erano formati. Non è più molto lontano il momento in cui saliranno in cattedra docenti che avranno avuto come insegnanti figure che non hanno mai esercitato alcuna pratica professionale…

Diversamente da quanto avviene nelle professioni sanitarie – per le quali (fortunatamente!) è ammessa la pratica intra moenia – nel contesto delle discipline del progetto architettonico e urbano questa condizione di inesperienza determina conseguenze piuttosto drammatiche.

La prima riguarda certamente un crescente scollamento della didattica del progetto dalle condizioni reali del fare architettura: metodologie e strumenti anche sofisticati di analisi e modellazione virtuale – sempre più in uso sin dai primi anni del percorso formativo – non possono infatti surrogare in alcun modo quel progressivo affinamento del sapere e del saper fare che deriva dall’osservazione diretta dei luoghi, dall’esperienza sul campo e, soprattutto, dalla rilettura critica – anche autocritica – dell’esito realizzato.

Un crescendo di “inesperienza dell’architettura” accentuato proprio dal pervasivo impiego di strumentazioni digitali prevalentemente finalizzate al controllo delle componenti formali del progetto (la sua immagine renderizzata), con una frequentazione dello spazio urbano e architettonica sovente limitata alla mera percezione visiva, anch’essa tendenzialmente mediata da qualche dispositivo informatico.

Questa “de-materializzazione” del fatto architettonico deriva poi anche dalla mancanza, quando non dalla totale assenza nei percorsi formativi di adeguati approfondimenti circa i fondamenti stessi del progettare e del costruire: la conoscenza dei materiali e delle loro caratteristiche e prestazioni, la padronanza delle tecnologie edilizie, la comprensione della complessa processualità che disciplina – anche in termini di procedure, normative e regolamentazioni – l’elaborazione di un piano urbanistico e la sua attuazione, così come la produzione del progetto e la sua traduzione in opera costruita. Come insegnare tutto questo senza averlo esperito sul campo?

A ciò si aggiunga il fatto che, soprattutto dopo l’esperienza della didattica a distanza imposta dalla pandemia, a noi docenti è stata e viene continuamente offerta una formazione tutta orientata all’innovazione delle metodologie didattiche (peer e digital augmented education, hybrid learning, flipped classroom, inquiry based learning, ecc.), da applicare impiegando strumenti hardware e software sempre più complessi (app e piattaforme dedicate). Mentre, come ho già avuto occasione di scrivere, è sempre più assente una “riflessione attorno ai contenuti della formazione e a come l’innovazione digitale nei metodi e negli strumenti ne influenzi la profondità: una didattica tutta visiva, orizzontale e multitasking, improntata dalle logiche performative della comunicazione aziendale, fatta di clik su icone dall’incerto significato all’interno di questionari a risposta multipla, o tutt’al più di nuvole di parole a figurare scontate concordanze sui luoghi comuni più frequenti: sostenibilità, partecipazione, creatività, imparare a imparare, problem setting, e così via. Forme didattiche nelle quali sempre più raramente viene richiesto allo studente di restituire in forma orale, testuale o grafica gli esiti di un pensiero complesso e strutturato, adeguatamente argomentato grazie ad approfondimenti verticali e a un processo di effettiva assimilazione e rielaborazione” (Mussinelli, 2021).

Né si riflette su come sia possibile trasferire un sapere e un saper fare molto complessi, quali sono quelli del progetto, irriducibili a ogni semplificazione o ad artificiose separatezze tra componenti formali, funzionali e costruttive; comprensibili e praticabili “solo attraverso un lungo, paziente, spesso difficile e faticoso apprendistato di studio, ricerca e sperimentazione, molto lontano dalle pratiche formative dell’awesome and effective” (Mussinelli, 2021). Trasferendo viceversa agli studenti l’idea che sia possibile progettare senza conoscere saperi tecnici specifici, comporre senza padroneggiare una cultura – anche storicizzata – della forma e della figurazione, elaborare segni “in libertà” senza rendere conto di vincoli e norme, “creare” spazi privi di precise e razionali motivazioni in risposta alla domanda sociale.

Una ulteriore deriva di queste dinamiche si correla poi al mondo della ricerca accademica, sempre più segmentata in approfondimenti iper-specialistici, con grande enfasi verso una innovazione tecnologica che si autolegittima proprio in quanto innovazione. Così che molti giovani ricercatori finiscono per trasferire nella didattica avanzamenti di ricerca spesso del tutto incongrui rispetto ai livelli di attrezzamento culturale e scientifico degli studenti, quando non del tutto improbabili se rapportati alla complessità dei fenomeni architettonici e urbani affrontati: come nell’impiegare avanzatissimi serramenti smart nel contesto di una città sostanzialmente stupida… (Mussinelli, 2020).

Una innovazione tecnologica che finisce così per tradire l’insegnamento dei fondatori della Tecnologia dell’architettura e della Progettazione ambientale, facendosi essa stessa manifesto di un linguaggio architettonico autoreferenziale, al pari di quello formalistico dei “compositivi”, legittimandosi dietro a più o meno reali esigenze di sostenibilità, soprattutto energetica.

Ben vengano quindi le testimonianze e le riflessioni critiche sviluppate in questa newsletter da alcuni giovani ricercatori che insegnano in vari atenei italiani, per rianimare un dibattito che dovrebbe essere messo al centro del lavoro di tutte le scuole di architettura. Un dibattito nel quale il “come insegnare” non si riduca al mero trasferimento di metodologie comunicative più o meno innovative, ma sia invece definito in funzione delle peculiarità del “cosa” è fondamentale che gli studenti apprendano e sperimentino per approcciarsi con consapevolezza alla complessità del progettare.

E a partire da qui, reintrodurre nelle procedure di reclutamento e valutazione della docenza il possesso di adeguate e aggiornate competenze sia didattiche che professionali, oggi non richieste nemmeno per l’abilitazione nazionale ai ruoli di professore associato e ordinario…; cosa che viceversa avviene nella stragrande maggioranza delle università europee e internazionali, dove l’esercizio del lavoro di architetto non solo è consentito, ma costituisce un requisito obbligatorio per accedere all’insegnamento.

Mussinelli E. (2021), “I contesti del progetto ambientale”, in: “Architettura e ambiente. Dieci progetti 2015-2020”, di Fabrizio Schiaffonati, Elena Mussinelli, Giovanni Castaldo, Maggioli (https://www.maggiolieditore.it/architettura-e-ambiente.html)

Mussinelli E. (2020), “Insegnare l’architettura, imparare dall’architettura”, in: Newsletter UCTAT n.21, marzo 2020 (https://urbancuratortat.org/insegnare-larchitettura-imparare-dallarchitettura/)

Aula didattica, edificio “Trifoglio”, Politecnico di Milano, progetto di Giò Ponti, 1953.
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