L’edilizia residenziale pubblica a Milano

UCTAT Newsletter n.55 – aprile 2023

di Paolo Debiaggi

Il libro “Dall’Ina-Casa alla Gescal. 15 quartieri milanesi” (a cura di F. Schiaffonati e E. Mussinelli; Maggioli, 2023), raccoglie contributi di architetti e studiosi chiamati a raccontare alcuni quartieri di edilizia popolare realizzati nel corso della seconda metà del secolo scorso nella periferia milanese. Si tratta di quartieri costruiti con risorse pubbliche per rispondere alla domanda abitativa di gruppi sociali meno abbienti che non avevano accesso all’abitazione attraverso il libero mercato. Lo sguardo è quindi rivolto a quel complesso di edifici, spazi pubblici e servizi organizzati con un vissuto che si è caratterizzato nel tempo come insieme di storie di persone e di luoghi. Progetti in molti casi d’autore, come ad esempio il disegno iniziale di Pietro Bottoni per il Gallaratese o il modello collaborativo usato per il Feltre con Gino Pollini a coordinare una serie di interventi a firma Gardella, Figini, Gregotti, Mangiarotti e altri, ma anche progetti più ordinari che il libro si propone di raccontare per restituire un’epoca oramai lontana di strategie e programmi pubblici per la valorizzazione dell’abitare.

È indubbio che il tema della periferia costituisca un nodo irrisolto delle politiche urbane, a Milano come in tutta Italia, che le retoriche vuote della rigenerazione urbana di sicuro non aiutano ad affrontare. Per contro, in tutta Europa, in questo momento storico, si registra un’attenzione rinnovata alla dimensione sociale dell’abitare, con la consapevolezza che il ripensamento e la sperimentazione progettuale sui quartieri pubblici costituisca una sfida ineludibile nell’epoca drammatica che stiamo attraversando, caratterizzata da una dinamica oramai stabile di stentata crescita economica, di crisi occupazionale, di incremento delle sofferenze e prevedibile ulteriore aumento del disagio sociale. In Italia non costruire più case pubbliche ha messo in crisi la capacità del sistema di assorbire una domanda abitativa, diversa forse dal passato, ma non per questo meno urgente e pressante, in una società che si impoverisce sempre più.

L’ultimo rapporto sulla povertà della Caritas italiana ”Anello debole” (ottobre, 2022) fotografa il 2021 nero dell’Italia nascosta, che “non ce la fa”, la popolazione che convive con la povertà quotidiana risulta ai massimi storici. Il Paese degli ultimi l’anno scorso si è ulteriormente ingrandito fino a contare 1 milione 960mila famiglie in povertà assoluta. E a quanto emerge dal Rapporto sulla povertà nella Diocesi di Milano, preparato come ogni anno dalla Caritas ambrosiana che ha analizzato le richieste di sostegno giunte nel 2021 nei loro centri, aumentano le persone povere anche nella nostra città. Sono ancora cresciuti, nel 2021 (+11% di richieste rispetto all’anno prima) i milanesi piombati nell’indigenza: molti sono italiani, in età lavorativa, che vanno ad aggiungersi allo stuolo di cittadini piombati nella miseria durante i primi mesi del 2020, quelli più duri del Covid e che vedono consolidarsi la loro condizione di precarietà. Inoltre, si allarga il fenomeno del lavoro povero, il cosiddetto working poor ovvero persone che hanno un impiego con contratti non dignitosi, che non riescono a tirare a fine mese e hanno comunque bisogno di un aiuto materiale per integrare il loro stipendio.

Se è questo il contesto sociale attuale, lo stato dell’arte delle politiche pubbliche per la casa deve registrare che con l’esaurirsi dei fondi Gescal (1998), finanziamenti pubblici a fondo perduto per costruire le case popolari, a parte qualche sparuta iniziativa spot, il problema è stato sostanzialmente ignorato dalla politica italiana. L’introduzione delle politiche di housing sociale con il Dm del 22 aprile 2008 non ha certamente riportato una nuova attenzione al problema. Infatti, la confusione generata dalla semplicistica interpretazione di social housing, operata ad arte dalla politica per minimizzare il tema e nascondere la propria impotenza, ha di fatto sovrapposto artificiosamente politiche e iniziative con contenuti e obiettivi profondamente diversi tra loro.

In alcune realtà urbane, soprattutto localizzate nel nord-centro Italia, si è sviluppato, a partire dai primi anni duemila, il cosiddetto housing sociale, un’offerta di alloggi privati caratterizzata da prezzi di vendita e/o di affitto calmierati da qualche forma di agevolazione pubblica. Si tratta di iniziative spesso sviluppate da soggetti in cui la compagine si è consolidata tra enti pubblici territoriali (Comune e Regioni), fondazioni bancarie, soggetti finanziari privati e soggetti del terzo settore. A parte qualche rara eccezione, i soggetti sviluppatori di questa nuova forma di offerta residenziale, non a caso codificata e sviluppata in Italia nel momento in cui il mercato immobiliare si arrestava drammaticamente a causa della crisi economica generata dalla crisi del credito, vanno identificati in alcuni grandi operatori che alleano temporaneamente o in maniera più strutturata, soggetti istituzionali pubblici e operatori finanziari quali banche, assicurazioni, casse di risparmio, attorno a un progetto di sviluppo immobiliare, spesso confezionato come un prodotto finanziario ovvero come un fondo immobiliare. Fondo immobiliare in cui gli azionisti investono le proprie quote demandandone la gestione operativa a un soggetto gestore, in genere una sgr ovvero struttura di gestione del risparmio anch’essa articolata come società per azioni. Un sistema di strutture societarie e prodotti, concepiti e governati secondo una logica finanziaria, in cui ogni soggetto azionista del fondo (in genere sempre gli stessi) dovrebbe ottenere il proprio tornaconto (o rendimento) e il soggetto gestore (in genere sempre lo stesso) vedere premiata la propria attività. Insomma, negli ultimi vent’anni, anche la produzione edilizia agevolata per i ceti meno abbienti è diventata un prodotto finanziario.

Tra gli interventi più consistenti per dimensione di offerta, tutti di proprietà di fondi immobiliari gestiti da un’unica principale sgr a capitale privato, si possono citare “Redo connessioni abitative” a Merezzate, “5 square” in via Antegnati al Vigentino, “Borgo sostenibile” a Figino, “Moneta più valore all’abitare” ad Affori, “Quid Quintilliano district” a Taliedo, “Cenni di cambiamento” a Trenno, “Urbana new living” in zona Parco Lambro e “Social village Merlata” inserito nell’enorme progetto di sviluppo immobiliare posto di fronte al sito Expo ora Mind. Già in programmazione, con il solito soggetto gestore capofila, la realizzazione di 1200 nuovi appartamenti in social housing all’interno del progetto di riconversione dell’area dell’ex Macello, aggiudicato attraverso il secondo bando Reiventing Cities.

Ma come detto, queste iniziative non possono rispondere alla necessità di politiche per il vero disagio abitativo che solo l’intervento pubblico con finalità sociale può garantire. Considerando i più recenti Piani comunali di assegnazione delle case popolari, annualmente a Milano, tra Comune e Aler, si assegnano circa 2.000 alloggi di edilizia economica popolare, a fronte di richieste pari a dieci volte maggiori. È del tutto evidente che non solo andrebbe valorizzato tutto il patrimonio esistente di abitazioni pubbliche rendendole disponibili alla domanda, oltre che con interventi migliorativi anche recuperando quello inutilizzato, perché troppo degradato e contrastando quell’odioso fenomeno delle occupazioni abusive, ma anche realizzandone di nuove. Le case popolari nella città di Milano sono divise tra Comune e Regione: quelle di proprietà del primo sono gestite da Mm (Metropolitana milanese spa), mentre quelle di proprietà della Regione sono in capo ad Aler (Azienda lombarda edilizia residenziale). Queste ultime sono le più numerose, ben 34.500 su tutto il territorio cittadino, mentre quelle comunali sono 28.110. Decine e decine di unità immobiliari gravate dai soliti problemi che si ripresentano in ogni realtà urbana italiana: morosità degli inquilini, sfratti, appartamenti sfitti in attesa di venire riassegnati. E soprattutto occupazioni abusive: 3.750 case occupate abusivamente.

In molti osservatori e analisti si fa oramai largo la consapevolezza che il sistema è oramai arrivato al collasso. La furia neoliberista ha provocato disastri sociali, il nuovo welfare state basato sulla delega al privato ha prodotto disuguaglianze pari quanto al livello di inefficienza pubblica da cui si voleva fuggire. Sul tema dei limiti e della legittimità democratica dell’impostazione che delega al privato il compito di soddisfare diritti primari dei cittadini, come quello alla salute, all’istruzione, alla mobilità, alla casa, gli studi e le analisi critiche si stanno moltiplicando. Ci si può solo augurare, con l’ottimismo della ragione, che questa consapevolezza riesca infine a trovar sempre più spazio anche nel sentire e agire delle politiche. In ragione degli esiti nefasti della pandemia, la fase attuale sembrerebbe caratterizzata da una possibile ripresa di un ciclo significativo di investimenti pubblici. Per il momento, molto si è comunicato, dibattuto e speculato sui media, nulla ancora si è visto atterrare come esito concreto. Il salvifico Pnrr, assegna risorse ingenti (2,8 miliardi di euro per attuare il Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare – Pinqua) alla riqualificazione dei quartieri pubblici. L’auspicio sarebbe che nell’attuazione del programma si abbia la capacità di garantire la corretta attenzione alla dimensione integrata dei problemi e delle soluzioni, la partecipazione attiva degli abitanti nel processo e una profonda attenzione alle specificità e ai caratteri storici del patrimonio oggetto di intervento. Purtroppo, nello specifico contesto locale, come già osservato in passato, si può intravvedere una criticità. Questa delega sempre più massiccia di attività un tempo sviluppate con risorse e personale interno alla pubblica amministrazione, pur non comportando ne un miglioramento nei conti pubblici ne tantomeno una minor pervasività del mostro burocratico, ha di certo prodotto, tra l’altro, un progressivo depauperamento e perdita di settori e competenze tecnico-professionali. I recenti entusiasmi legati ai finanziamenti concessi al nostro Paese all’interno del Pnrr si dovranno certamente misurare, non solo con la capacità effettiva di spesa e rendicontazione dell’attuazione di progetti e programmi, come richiesto dalla Comunità europea, ma anche con la mancanza di risorse umane e competenze nelle amministrazioni comunali in grado di programmarne, progettarne e controllarne le diverse fasi realizzative. La mancanza di competenze non riguarda solo le figure tecniche in grado di sviluppare progettualità, ma anche quelle preposte alla verifica, controllo e manutenzione. In altre parole, questa continua e progressiva deriva privatocratica, ha determinato il venir meno della capacità della pubblica amministrazione nella principale funzione a cui l’abbiamo delegata ovvero il “prendersi cura” dell’interesse collettivo.

Via Appennini, Milano.
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