Lo spazio di relazione

UCTAT Newsletter n.52 – gennaio 2023

di Paolo Aina

L’architettura moderna nasce come un sogno di libertà e speranza di vita migliore e che cosa sarebbe stata senza il tentativo di fornire a tutti una casa in cui poter alloggiare dignitosamente con i propri familiari?

Queste premesse sono ben illustrate da Edoardo Persico quando parla dell’architettura come “Sostanza di cose sperate”.

Di questa visione dell’architettura come possibilità di salvezza, di progresso e di avanzamento della società c’è traccia fino quasi ai nostri giorni; ancora negli anni ’70 del secolo scorso noi architetti pensavamo di poter contribuire a cambiare la città, pensavamo di poter costruire degli insediamenti con la messa in opera di uno spazio in cui le libertà personali potessero esprimersi e dove il diritto alla felicità potesse avere una sede opportuna.

Diritto alla felicità, queste parole corrono sempre sotto traccia, non abbiamo il coraggio di pronunciarle espressamente, sappiamo che esiste questo stato ma forse per pudore non vogliamo parlarne.

Eppure se ne parla fin dalla notte dei tempi cercandone definizioni, regole e modi di vita che potessero renderlo effettivo e presente nella nostra vita.

La Rivoluzione francese, come poteva essere diversamente, ne parla come qualcosa di razionale e pubblico: uno spazio democratico.

Una definizione del genere fa intendere che non vi può essere una felicità individuale se non ha un suo corrispettivo in una felicità collettiva.

Lo spazio della felicità diviene così spazio pubblico, pubblico non solo nel senso di uno spazio politico da esplorare ma proprio dimensione fisica della città.

Gli spazi aperti cittadini erano fino ad allora ornamento a gloria degli edifici del potere: chiese, basiliche, palazzi signorili, sedi della nobiltà.

Con la Rivoluzione, le piazze, gli slarghi, le vie vengono occupati, conquistati e presi da chi fino ad allora vi transitava con soggezione, il “volgo disperso” si unisce e lo spazio della città, che raramente cambia forma, si carica di nuovi significati.

La Bastiglia viene invasa e assaltata il 14 luglio 1789, questa data diventerà in Francia festa nazionale; in seguito la fortezza verrà demolita.

Sparisce il simbolo del dispotismo reale e si spalanca l’accesso a un futuro migliore.

La conquista degli spazi cittadini, l’occupazione degli edifici sono un indizio della gioia e della felicità che colma il cuore di chi si ribella.

È esemplare ed epica la scena del film “Ottobre” di S. M. Ejzenštein dove il bolscevico Antonov sfondando la porta della stanza del governo nel il Palazzo d’Inverno apre il passaggio alla speranza di una felicità collettiva.

Il perché di queste azioni è chiaro nelle parole di M. L. King: “La libertà [e potremmo aggiungere la felicità] non viene concessa volontariamente dall’oppressore, deve essere pretesa dagli oppressi”.

La felicità appare come conseguenza di una conquista, conquista dello spazio, conquista di libertà; aprendo la porta non si entra solo in una stanza, si viene accolti da un un futuro migliore.

Come tutte le cose la felicità e la gioia, pur essendo personali e da conseguire anche soggettivamente come afferma la Costituzione americana e la proposta di legge italiana per la modifica dell’art. 3 della nostra Costituzione, ha bisogno di un posto dove andare e dove stare.

Ecco allora quale può essere oggi il contributo di chi si occupa della costruzione dello spazio, la configurazione di un vuoto adatto ad accogliere e favorire lo sviluppo e la crescita della felicità e della gioia.

Occorre precisare che gli spazi personali e collettivi del passato sono ancora usati a questo scopo qui in Europa, si riempiono le piazze storiche e avendone la possibilità molti preferiscono abitare in case del centro storico delle città.

La costruzione dei nuovi quartieri dopo le distruzioni della guerra aveva lo scopo di fornire un tetto a coloro che avevano perso la casa che non avevano più un “Ubi consistam”, si presentano con l’uniformità costruttiva della produzione industriale.

Esistono spazi pubblici poco rappresentativi perché muti, non raccontano neppure una storia e non paiono in grado di accoglierne nessuna, per questo vengono ignorati o usati solo come superficie utile all’esposizione delle merci del mercato settimanale.

In quegli anni la nozione di funzionalità oscurava qualsiasi altro concetto ne vediamo ora le conseguenze.

Finalmente ci siamo accorti che alla funzione felicità non basta una superficie, occorre che i metri quadrati abbiano ripari dove sostare all’ombra e al riparo dalla pioggia, presenza di alberi, monumenti, fontane, viste approntate con cura, materiali appropriati ma sopratutto un progetto che  non si proponga a tutti i costi di èpater le bourgeois come spesso accade.

La felicità ha bisogno di luoghi che dove il rumore non si sente, di luoghi consonanti con la città e con il nostro essere cittadini, di luoghi dove non ci si senta né estranei né ospiti.

Sto parlando della città in cui si vive, non quella dove ci si reca da turisti e si è travolti dall’andiamo a vedere… dal non abbiamo ancora visto… di città dove la vita, in quel momento, si riduce al solo vedere.

Sia le architetture antiche che quelle moderne quando siamo turisti si riducono ad un’immagine, al soggetto di una fotografia ma se le architetture antiche hanno il pregio di essere consonanti con il tessuto urbano che le circonda quelle moderne appaiono spesso come icone, come rappresentazione di un’abilità linguistica e tecnologica senza fondamenti se non quelli di uno sviluppo disciplinare spesso estraneo e comprensibile solo agli addetti.

In questo senso mi pare illuminante il dialogo tra Slowik il famosissimo chef del film The Menu e Margot un’ospite che partecipa alla costosissima cena nel suo ristorante dell’isola di Hawthorn, dove le portate grondano di estetica, eccolo:

MargotNon gradisco il suo cibo
ChefChe cosa ha detto?
MargotHo detto che non gradisco il suo cibo e vorrei che lo togliesse di mezzo
ChefMi dispiace che lei lo dica. Che cosa del mio cibo lei non gradisce?
MargotPrima di tutto lei ha tolto la gioia del mangiare. Ogni piatto che ha servito stasera era solo un esercizio intellettuale più che qualcosa davanti a cui ci si siede e si gradisce. Quello del suo cibo è il sapore di una cosa fatta senza amore
ChefMa è ridicolo. Noi cuciniamo con amore. Non è vero? Sì Chef  (la Brigade de cuisine in coro) Tutti sanno che l’amore è l’elemento essenziale
MargotLei si sta prendendo in giro., Avanti Chef, credevo che fosse una serata di dure verità familiari e lo è. Lei cucina in modo ossessivo, non con amore. Sono freddi anche i cibi caldi. Lei è uno Chef, il suo unico scopo su questa terra è servire del cibo che la gente possa gradire e lei ha fallito. Ha fallito e mi ha annoiato e la parte peggiore è che ho ancora una fame del cazzo
ChefHa ancora fame
MargotSì chiaro
ChefQuanta fame?
MargotDa morire
ChefE di che cosa ha voglia?
MargotLei che cos’ha?
ChefTutto
MargotSa che cosa vorrei?
ChefMi dica
MargotUn cheeseburger
ChefPosso fare un cheeseburger
MargotUn vero cheeseburger. Non una stravagante stronzata d’avanguardia. Un vero cheeseburger.
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