L’urbanistica del dominio

UCTAT Newsletter n.49 – ottobre 2022

di Marino Ferrari

C’è poco da fare, come direbbe il vecchio contadino, quando non si vuol cambiare è inutile insistere. Potrebbe apparire come una dichiarazione di voto ma sulle questioni che riguardano l’ambiente lo è: non si vuole cambiare perché prevale il vecchio e consunto metodo ovvero i vecchi e consunti metodi, come se si volesse affermare che le regole che ci siamo costruite ed alle quali siamo abituati un poco per negligenza un poco per convenienza vale il sacrificio di mantenere. È convinzione abbastanza diffusa che urbanistica ed architettura siano da tempo decedute e che il decesso sia dato dal sistema di appartenenza, che poi è a tutti gli effetti quello che conosciamo, vale a dire il sistema che ha generato sotto molti profili la tipologia delle sovrastrutture nonostante nel tempo si sia desiderato cambiarle. Oscar Niemeyer più volte domandato a proposito dell’arte se fosse, lei, in grado di cambiare almeno una parte del mondo, se non proprio tutto, rispondeva con quel suo fare quasi bonaccione: “la rivolution”. D’accordo, non vale la sofferenza intellettuale di soffermarci su questa “simpatica “dichiarazione, ma certamente guardando la realtà, almeno quella che concerne le “applicazioni sovrastrutturali”, orbene, lì varrebbe la sofferenza intellettuale di soffermarsi. Per quanto concerne la famosa architettura si potrebbe dire che ciascuno, come del resto da sempre, esegue ciò che meglio lo appaga appagando anche le richieste delle committenze. Vale anche sottolineare che le committenze, in questo contesto di contemporaneità, stabiliti gli obiettivi primari che poi sono quelli speculativi più o meno adombrati di falsità culturale (e qui vi sono effettivamente bravi attori) il resto viene da sé secondo i dettami del mercato, del mercato delle immagini, del mercato delle affabulazioni. Del resto, se esistono le facoltà scientifiche (sic) per la comunicazione, un motivo ci sarà pure, nonostante e forse per quello, vi sia un crescendo di discipline, una parcellizzazione delle conoscenze, un assemblaggio di pseudo approfondimenti; una parcellizzazione ed una conseguente superficialità conoscitiva che sarebbe molto bello sovrapporre a quella del mercato (il marketing) il quale si avvale non solo di forme ma di sinonimi che, al di là degli ormai molteplici acronimi, danno un senso ed un significato agli oggetti. In architettura o anche nella bella edilizia, le parti messe assieme con giudizio tecnico e criterio formale assomigliano moltissimo alle formule usate per proporre il consumo di un prodotto, qualsiasi prodotto compreso la volgarità della proposta; la proposta volgare (etimologicamente fuori o al di sotto di quella culturalmente elevata anche se non so bene dove sia il distinguo strutturale); il sinonimo da forma all’oggetto e non viceversa. In architettura il bello esiste innanzitutto nella espressione di una idea che sovente viene accostata e addirittura confusa con la poetica; una forma di traslitterazione che meglio ed appropriatamente vedrei come una vera e propria trasverberazione, come quella grandiosa della Santa Teresa. Proprio un incantarsi di fronte e dentro all’opera lasciandoci trasportare in un altro luogo con un altro spirito, ovviamente abbattuto dalla materialità dei fatti, lasciarsi ferire perché la ferita non sia un dolore ma una sofferenza d’amore. Per questo l’architettura ha dovuto soccombere ma, ciononostante i suoi becchini hanno saputo e sanno re-manifestarla proprio manipolandone i paradigmi, che non hanno più senso così come concepiti ed usati sino a non molto tempo addietro. Oggi, dunque, quel che rimane del corpo dell’architettura viene offerto nel tema ambientale e non solo come se sino a ieri “fare architettura” non significasse proprio prestare grande attenzione al contesto, tutto ovviamente, storico, culturale, sociale, artistico ed altro. D’accordo, abbiamo di che sorridere e dunque sorridiamo, ma vi è una rinascita colta da grande opportunità. Anche l’ultimo prodotto presentato al consumo è “sostenibile, ecologico, che guarda al futuro, inclusivo e nei più affaticati casi addirittura votato alla gentrificazione ( tra le apparizioni ultime quella maggiormente non inclusiva, come si è detto e fortemente classista, discriminatoria vaccinata da tempo alle migliori vocazioni del capitale finanziario), dove occorre dotarlo di verde, tanto verde, in grado di sconfiggere l’inquinamento e rispettando il consumo del suolo ovviamente in attesa di una normale legge che ce lo imponga.

Centralità e responsabilità delle persone, identità, valori e patrimonio culturali, efficienza e circolarità, sicurezza e salute, rispetto della natura e processi naturali, rispetto del clima, smart, resilienza, durata, funzionalità e lungimiranza, economicità e accessibilità, interdisciplinare e reti, coinvolgimento ,facendo recupero delle esperienze in cui viene affermato il diritto di proprietà, attraverso cui si è potuto rilevare come in ordine di priorità si debba agire partendo dalla sostenibilità e passando all’inclusività, alla pianificazione, al disegno urbano e, infine, all’architettura. (non si capisce se l’architettura venga messa per ultima rappresentandone la summa oppure avendo a che fare con architetti non ci si può esimere)

Ecco, questo lo impone la carta della Repubblica di San Marino, come occorre operare in tutte le città, secondo Norman Foster e con il Sostegno del nostro amato Boeri. Bello, senza dubbi e mi porta spontaneamente (qualche colpa ovviamente ho, dovuta all’età e alla fascinazione di certi momenti con altra valenza culturale, o almeno scevra da ogni banalità) alla utopia di Olivetti che si poteva leggere nel piano per la Valle d’Aosta. Alla conclusione apparve una rappresentazione tridimensionale dell’utopia, una precisa occupazione di suolo. Nella proposta di San Marino, francobollo di terra con una densità di popolazione ragguardevole, si dice di non consumare troppo suolo, di consumarne poco. Grande sarebbe l’opportunità per un territorio patrimonio dell’umanità di evitare del tutto il consumo del suolo che tra le altre non appare così facilmente “operabile”. Ma questa opportunità ci avvicina alla rinascita dell’urbanistica o forse di un aspetto pseudo tecnico della pianificazione territoriale. Tempi andati e urbanisti andati da quando l’urbanistica era una disciplina governata da forti utopie, dal profondo desiderio di “disegnare” il territorio urbano e non solo, di codificare una gerarchia di valori sempre più democratici e partecipati anche nelle decisioni. Oggi mi sembra di capire che l’urbanistica sia, appunto, defunta e con essa quei meravigliosi filtri che sapevano innescare nei progettisti forti idealità e contrasti con il sistema generale di governo, un quasi costante contrapposizione tra le richieste politiche di mercato e invece l’estensione della affermazione di una corretta ideale gestione del territorio urbano. Il mercato, le sue regole mai chiarite nella natura e nella strategia, al quale facciamo riferimento come se appartenesse alla scienza mentre altro non è che una sequenza di correzioni e di limiti strutturali incapaci di governarsi e lasciando alla iniziativa dei più capaci il contrasto del conflitto insito nella merce e nel suo adescato consumatore. È difficile credere sia nella enunciata architettura sia nella proposta urbanistica pur sostenuta da personaggi navigati e naviganti per loro meriti e fasti. È difficile crederci perché entrambe appaiono governate dalle consuete e vecchie regole. Certamente sono sostenute nella apparenza dalle giaculatorie farcite dalle definizioni ormai ricorrenti in tutte le proposte merceologiche, nelle quali credere per convincere a crederci. Senza una modesta delucidazione. Pertanto, anche nelle proposte pianificatorie si ritrova la resilienza, la gentrificazione, le visioni smart, il recupero del patrimonio esistente per una grande rigenerazione, l’occupazione intelligente del suolo, l’autonomia energetica ed altro ancora. Tutto si tiene perché il tutto è disciplinarmente generato da specifiche e puntuali conoscenze. Corre l’obbligo quindi di chiedersi: queste conoscenze governate da queste discipline sono nate tutte in un sol momento, sono così estranee alle storiche discipline, non appartengono più alla Urbanistica o alla Pianificazione e addirittura alla Architettura, oppure semplicemente si sono evaporate nel percorso dei tempi nonostante il desiderio dei suoi maggiori rappresentanti professionali di marcare il territorio con forme e tensioni poetiche che di fatto ci hanno lasciati in brache di tela, cioè senza risorse?

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