UCTAT Newsletter n.55 – aprile 2023
di Fabrizio Schiaffonati
L’autocritica non è nelle corde dei politici e degli amministratori. Neanche l’ironia. Nonostante l’esperienza dimostri che la gran parte delle promesse vanno deluse, e che tra le aspettative e la realtà ce ne corre. Più di una volta anche veri e propri fallimenti che non portano a prenderne atto, perché l’ideologia e la propaganda è sempre all’opera e sono la motivazione principale di chi fa politica. Soprattutto oggi nella società in cui la comunicazione crea l’evento, anche se non c’è.
Nessuno si nasconde l’enorme difficoltà di governare, ancor più nella società di massa e con la democrazia che dovrebbe consentire di prender voce anche a chi non fa politica in prima persona. Almeno così dovrebbe essere. La crisi della democrazia si fa acuta quando questa voce si fa più flebile e non la si tiene in conto, o peggio si fa finta di ascoltarla.
Governare e amministrare è complicato. Comporta conoscenze, competenze e anche intuito. Come per ogni intrapresa di successo. In questo senso la reiterata sottolineatura che la gestione pubblica sia altra cosa da quella privata, sottende un idealistico retro pensiero che ha fatto enormi danni. Con i paradossi che hanno fatto storia, come “la convergenza delle rette parallele” o “il salario è una variabile indipendente”. La differenza sta negli obiettivi non nelle modalità e nelle tecniche per realizzarli, su cui si può anche discutere e avere strade diverse ma non sulla razionalità della gran parte dei processi acquisiti col metodo sperimentale. Se ci si allontana da questa logica e non si tiene conto degli errori, i fallimenti saranno sempre alle porte. Salvo poi attribuirli a chissà quale congiuntura o congiura. Un altro modo di chiudere il cerchio in cui molti dei politici sono, come dei prestigiatori, abilissimi.
Governare e amministrare significa sapere PREVEDERE-PROGRAMMARE-PIANIFICARE-PROGETTARE-REALIZZARE.
Ma veniamo ai problemi che ci sono più vicino, di Milano su cui UCTAT richiama l’attenzione. Come altri di una articolate area critica che guarda a chi alle prese coi bisogni quotidiani, rispetto a chi con ben altra affluenza e la gran parte degli stessi politici sono più interessati a celebrare i riti del consumo che a corrispondere alle aspettative dei comuni cittadini. Così non sarebbe se non si propagandasse continuamente la vulgata trionfalistica di una città di successo. Tanto più ora che un crescente disagio sociale, confermato da dati e analisi, da rapporti, da inchieste, stanno a dimostrare che non è tutto oro quel che luccica.
Nessuno si nasconde la complessità e la difficoltà di questa sorta di “città stato” che è diventata la metropoli. L’enormità di questioni economiche, sociali e gestionali, che i reiterati ritardi del passato per l’assenza di un pragmatico riformismo hanno accentuato e incancrenito. Ma da qualche parte si dovrà pur cominciare, anche senza gesti eclatanti. Più volte è stata richiamata l’espressione dell’architetto Vittorio Gregotti su “IL NECESSARIO POSSIBILE”, che sottende l’elementare buonsenso di non perseverare nell’errore di vacue aspirazioni.
Rimanendo nel campo dell’urbanistica, che ci è proprio per conoscenze ed esercizio, e che rappresenta uno iceberg da tutti visibile, di contraddizioni, di sviluppo sperequato, di abbandono di interi quartieri, di degrado edilizio, di inadeguati servizi – di peggioramento cioè della complessiva qualità ambientale e morfologica, e si potrebbe entrare in dettaglio anche di tanti minuti aspetti – è ormai inconfutabilmente evidente l’assenza di un Piano, Regolatore o di Governo che sia, per lasciar spazio a un laissez faire che neanche negli anni del liberismo della ricostruzione si era visto. Nessun disegno strategico che non sia la registrazione dei gruppi finanziari, di fondi immobiliari e di azioni speculative basate sulla rendita fondiaria differenziale. Le problematiche attuali del costo degli alloggi e degli affitti non sono che una conseguenza, e per l’assenza di ogni azione calmierante. Chi ricorda più la legge 167 coi Piani di edilizia economica e popolare, i PEEP, che dagli anni Sessanta in poi ha consentito lo sviluppo di quartieri e di interventi in tutta Italia, con la Gescal e la Cooperazione abitativa? Edilizia sovvenzionata (popolare) e agevolata (economica), e la Pianificazione attuativa che ne è conseguita.
Il discorso è lungo e ha riempito pagine di Storia, non solo dell’urbanistica e dell’architettura. Ha mitigato squilibri, offerto quartieri e abitazioni civili, realizzato opere pubbliche fondamentali. Quello che poi è andato degradando, come il patrimonio di edilizia pubblica, fuori controllo al punto che rimangono inutilizzati, nonostante l’emergenza, migliaia di alloggi. D’altro canto sugli Scali ferroviari se ne è venuto invece a capo, come ogni altra operazione immobiliare dei grandi gruppi, nei modi da loro dettati e fin tanto che accettati da amministrazioni ossequenti. Quale azione se non quella di moderare gli indici edificatori, di ampliare gli spazi pubblici, di applicare oneri di urbanizzazione adeguati agli strati della domanda, di sviluppare una particolare sensibilità per chi ha più bisogno, se non quella di una Amministrazione riformista e progressista? Sappiamo che le risorse pubbliche non sono più quelle di un tempo, ma non sono scomparse: il problema è saperle utilizzare al meglio, come non sembra.
Assistiamo invece ad un ribaltamento dell’ottica, celebrata come vitalismo economico, che mostra ora anche il lato meno confortante dei disagi e dei pericoli che la bolla immobiliare e le crisi finanziarie ci hanno già fatto vedere.
L’urbanistica è il nodo. L’urbanistica scomparsa o camuffata con una farraginosità di norme astruse, da procedure indecifrabili, dal superamento di ogni decente ragionevole indice di edificabilità, di distanze dai confini e tra gli edifici, di percentuali di occupazione del suolo. Poter costruire comunque e dovunque – negoziando, comprando e trasferendo cubature, interpretando caso per caso norme morfologiche, costruendo sul costruito, soprelevando, saturando cortili e ogni buco libero – è quello che appare agli occhi e altera fronti strada, skiline e preesistenze ambientali.
Nell’estetica della Amministrazione comunale sembra che la verticalità sia un indiscutibile assoluto, con provinciali grattacieli e grattacielini, così come capita, e che appare come un tradimento di quella sobrietà di cui la città ha orgogliosa memoria.
Poi la morte della tanto celebrata urbanistica milanese, trascina il traffico, il decoro, la sicurezza dei luoghi, innescando disaffezione e allontanando il presidio dei cittadini, fondamentale in una azione collaborativa di governo. Senza l’urbanistica anche l’architettura si ripiega su se stessa, autoreferenziale e asfittica, tuttalpiù utile per qualche icona pubblicitaria.
Questa ultima considerazione porta ad un tema che UCTAT non si stanca di rimarcare. Quello del Decentramento Amministrativo, del ruolo dei Municipi. Anche qui la memoria va poco addietro con la loro istituzione e il ruolo avuto in materia urbanistica ed edilizia. Le Zone del Decentramento, luoghi della partecipazione e del dibattito per la formazione della decisione politica. Ambiti fondamentali della comunità, identitari dei cittadini, riconoscibili come un tempo il Broletto o il Palazzo comunale; e come è ancora nelle città di piccole e media dimensione.
La sociologia urbana ci ha indicato questa dimensione conforme, antropologicamente fondamentale per la comunità, rilevando ed elaborando concetti di COMUNITA’, VICINATO, PROSSIMITA’, dove è possibile riconoscersi e intrattenere relazioni sociali. Il contrario della anonimia urbana all’opposto a questo bisogno di aggregazione.
La città, Milano quindi, come insieme di Municipi, in un disegno di una armonica costellazione. Che cos’è questa se non una visione della periferia non come emarginazione ma vicinanza, senza la quale non si può metter mano a un cambiamento? Perché questa idea della Sociologia, che un tempo fu anche della politica, ne sottende anche un’altra fondamentale per la democrazia: quella di una democrazia deliberativa, di una decisione pubblica non sovrastata da poteri e interessi che nulla hanno a che fare con l’esercizio di una sovranità che è altro dalla comunità. Quindi avversa alla verticalizzazione del sistema decisionale.
Anche questo è oggi un discorso complesso. Non un motivo per non interrogarsi e farlo oggetto di un confronto politico, indicando che invece vuole sottrarsene. Discorso che apre alla crisi della rappresentanza, dei partiti politici, dei mezzi di comunicazione, eccetera.
Ma allora sulla strada del NECESSARIO POSSIBILE, quale semplice azione tante altre se non quella di rendere visibili, percepibili, frequentabili, belli, i NOVE MUNICIPI. Rendendolo attrattivi, decentrando anche manifestazioni e mostre rilevanti, per renderli luoghi di aggregazione e d’incontro, come quando si andava in piazza e nei luoghi eccellenti della città.
Un “ribaltamento della PIRAMIDE DEI VARORI” che già a suo tempo (sempre negli anni Sessanta) il Piano Intercomunale Milanese, il PIM, indicava negli indirizzi di Giancarlo De Carlo, Silvano Tintori e Alessandro Tutino. A quali principi, a quali indirizzi si ispirano oggi gli amministratori e i burocrati comunali? Sarebbe dato saperlo, visto che il tanto invocato spirito costituzione nella amministrazione del territorio non risulta essere stato ancora abrogato. E’ pretendere troppo e disturbare il manovratore?
