UCTAT Newsletter n.51 – dicembre 2022
di Vanna de Angelis
Era il 24 dicembre e non era ancora buio. Un ragazzino si fermò ad osservare la vetrina di un negozio che non si capiva bene cosa vendesse, forse giocattoli. Un tetro alberino in plastica spelacchiato – un abete dalle finte candeline – era stato piantato alla men peggio in un finto prato di neve di plastica su cui una pecora di gesso, smarrita in tanta solitudine, vagava come se non le riuscisse di trovare la strada per la grotta con il bambino o la luce della cometa. Non è chiaro se fu la miseria dell’alberino o la solitudine della povera pecora a farlo piangere, giù lacrime di fronte a tanta desolazione, lui che credeva appassionatamente a Babbo Natale. Gli venne voglia di scappar via subito dalla tristezza ma, proprio all’ultimo, notò seminascosto dal finto alberino un cartello con su scritto: solstizio d’inverno? con tanto di interrogativo. E indicava chiaramente all’interno del negozio. Come sarebbe a dire punto di domanda, si sorprese il ragazzino. Asciugò le lacrime. E come sarebbe a dire solstizio d’inverno? Così spinse la porta, il campanello tintinnò, e dentro non c’erano giocattoli, del resto non era questo che il ragazzino si aspettava: dal soffitto pendevano sospese a mezz’aria aeree meraviglie. Non ci mise molto a riconoscervi sistemi planetari, elissi e pianeti circolanti, tutti copie del nostro sistema per intenderci. Era stata sua mamma a insegnargli facendo girare intorno a un’arancia infilzata su una matita una candela accesa rasente al grande cerchio in fil di ferro che faceva da orbita. Insomma, il ragazzino la sapeva lunga sulla faccenda dei solstizi, e anche degli equinozi. E riguardo al solstizio d’inverno, poiché era quello il tema, spiegò al tipo dietro al bancone che quando la candela, cioè il sole, si abbassa fino al limite inferiore dell’orizzonte, allora è il giorno più corto e la notte più lunga, il sole va giù e scompare e muore, mentre le tenebre si divoravano la luce. Giusto? Il tipo dietro il bancone approvò, tutto giusto, disse, ma con un sorriso: sì, tutto giusto, solo son anni che non sento qualcuno convinto che Tolomeo avesse ragione. Ti è mai venuto in mente, gagnetto, gli disse, che è la Terra a girare intorno al sole e non viceversa come ti ha insegnato la tua mamma? Dopo un veloce battibecco concordarono entrambi che in effetti sì, il solstizio d’inverno, in un caso come nell’altro, è comunque il momento – circa il 21 o 22 dicembre – in cui il sole si butta giù con un ciao a tutti e che vadano in malora!
Eh, ma non finisce mica qui… anzi! sbottò il ragazzino. E indicò la vetrina perché là dentro adesso ci voleva la grotta con il bambino e la cometa e il bue e l’asino e altre pecore insieme a quella poverina lì da sola, e i Magi e i pastori e tutto quanto. Il tipo dietro il bancone lo fissava in silenzio come se la cosa non lo riguardasse e allora il ragazzino, veemente, sporgendosi verso di lui: lo sai o no, aggiunse, che oggi è il 24 e il sole del solstizio d’inverno inizia di nuovo a salire per riportare la luce e che è per questo che c’è il Natale e nasce il bambino? Aveva alzato la voce.
Il tipo fece un cenno per fargli capire che non era sordo, poi: dobbiamo dilungarci su questo, chiese, se su questo la sappiamo già lunga anzi lunghissima, se ce l’hanno spiegato in mille salse eccetto in quella che davvero conta? Hai letto la parola Natale in vetrina? No, hai letto solstizio d’inverno con un bel punto di domanda. E anche se le domande sono più importanti della risposta, guarda qui. Qui c’è ben altro, caro il mio gagnetto, e il tipo depose sul bancone un grosso volume. Bastò aprirlo perché fosse chiaro che il solstizio d’inverno aveva visto ben altre feste nell’antica Roma e in tutto il suo immenso Impero! Il Natale fatto di cometa re Magi bambino grotta pecore pastori e invocata bontà, si era ingegnato come non mai a cancellarle quelle feste pagane per installarsi al loro posto. Feste che dal 17 al 23 dicembre celebravano un felicissimo regno perduto. E che regno! Un regno di uomini uguali tra di loro e con essi le donne, un regno in cui la schiavitù era sconosciuta e sconosciuta la proprietà privata, non c’erano servi e non c’erano padroni, non c’erano ricchi e neppure poveri, non c’erano guerre e non c’erano carceri, non c’era odio, violenza e neppure crudeltà e rancori e leggi inique. Era il regno antichissimo fondato da un dio benevolo, il dio delle semine e delle coltivazioni. Era lui, Saturno, scacciato dall’Olimpo. Si era rifugiato nei territori italici, precisamente nel Lazio, accolto a braccia aperte dai primi uomini, esseri rozzi e brutali – scrivevano i poeti – ma che anelavano a un altro vivere. Così il dio, grato dell’accoglienza, decise che lì, in quelle terre, avrebbe instaurato un’età in futuro sempre rimpianta: la mitica Età dell’Oro. Insegnò l’agricoltura, formulò leggi sull’armoniosa convivenza tra umani e umani, tra umani e animali, tra umani e piante, tra umani e mondo circostante. Insegnò a studiare i percorsi delle stelle, il sorgere e calar del sole, il mutare delle stagioni. Diede senso alla vita e anche alla morte.
E poi?
Guarda qui, disse il tipo dietro il bancone e voltando una pagina scoprì un’immagine assai drammatica. Vedi qui? Qui ci mostrano che il dio un giorno scomparve, ed era dicembre nel solstizio d’inverno. Quando il sole si inabissa. Non lo trovarono più. Svanito. Forse imprigionato? Forse ucciso? E perché? E da chi? Lo cercarono a lungo e invano. Fatto sta che di quel dio non se ne seppe più nulla ma non ci volle molto ad accorgersi che si era portato via l’Età dell’Oro. Sparito Saturno e con lui i tempi felici, mai abbastanza rimpianti. Però il ricordo rimase e con esso il desiderio di rievocare quel regno straordinario. Di non dimenticarlo. Almeno quello. Cosa di meglio, per celebrarlo, che indire feste di gioia e di allegrezza? Ogni anno, dal 17 dicembre strade e case venivano addobbate con nastri colorati e rami di abete e di vischio, fiaccole e torce ovunque e davanti ai templi bracieri accesi su cui si bruciavano bacche di ginepro. Nelle piazze e nelle case banchetti, a cui tutti avevano il permesso di sedersi, vino e cibo in abbondanza, musica, danze, mimi e giocolieri, mercatini in cui si vendeva di tutto ma soprattutto statuette d’argilla che ci si regalava dicendo: ti auguro felici Saturnalia, come oggi diciamo Buon Natale. Saturnalia era il nome delle feste, giorni di cui il poeta Catullo…
So chi è l’ho studiato, interruppe il ragazzino.
… il poeta Catullo diceva: quelli dei Saturnalia sono i giorni più belli dell’anno. E ci credo perché, similmente all’Età dell’Oro, era permesso tutto quello che di solito era vietato: gli schiavi non erano più schiavi, giravano per la città con il berretto frigio in testa, simbolo di libertà, e venivano serviti a tavola dai padroni che non erano più padroni. Tornava l’uguaglianza, spariva la proprietà privata, omnia sunt communia, tutto era di tutti, si viveva una libertà ormai cancellata, anche del tutto fuori dalle regole, in quei giorni era permesso giocare d’azzardo e anche a dadi, si poteva far sesso quando e dove e con chi e come si volesse…
Cioè? interruppe di nuovo il ragazzino.
… si poteva anche giocare a palla al Foro, proseguì il tipo dietro il bancone come se non avesse sentito quel cioè, gioco per cui ti beccavi di solito salatissime multe. Erano chiusi i tribunali e le scuole…
Quelle anche da noi, interruppe per la terza volta il ragazzino.
… d’accordo, ma stai a sentire: per tutta la durata delle feste non si pronunciavano sentenze di morte, nessuno andava in prigione, capito? Erano giorni di convivialità, di divertimento, risate, gioia di vivere, felicità, e c’era un tal casino per le strade che certa gente tagliava la corda e si rifugiava nella sua silenziosa villa in campagna a fare chissà cosa. E il tipo dietro il bancone richiuse il volume con un gesto secco. Potrei continuare, disse, potrei raccontarti anche che ai Saturnalia si poteva andare in giro senza la solita tunica ma con i vestiti da casa e in ciabatte, oppure tutti vestiti da donna, e che si eleggeva una specie di finto re che inventava leggi strampalate e licenziose e non chiedermi che cosa vuol dire licenzioso, vai a vedere sul dizionario.
Infilò il volume al suo posto, su uno scaffale: io adesso vado perché mi aspettano a cena. Cena di Natale. Non so tu.
Io vado dalla mia mamma, disse il bambino. Ma tu la vetrina la lasci così? Non aggiungi niente? E si accigliò.
La lascio così, disse l’uomo e si infilò un berretto di lana rossa.
E perché?
Prova a indovinare…