Nuove architetture a Milano

UCTAT Newsletter n.28 – novembre 2020

di Fabrizio Schiaffonati

Tra i libri di architettura che con l’approssimarsi della ricorrenza natalizia sono in esposizione, quest’anno spicca, per il formato e l’elegante copertina blu, la pubblicazione Nuove architetture a Milano, a cura di Marco Strina e il coordinamento scientifico di Marco Biraghi. A colpo d’occhio si potrebbe pensare ad una strenna, che di solito non manca, con icone delle recenti opere del nuovo sviluppo urbano. Celebrate come simbolo di una rinascenza della città, con firme d’autore, spettacolari colorate visioni.

Ma poi, scorrendo dal titolo all’autore, Roberto Aloi, e il sottotitolo “La città dalla ricostruzione al boom economico (1945-1948) in un classico dell’epoca”, l’architetto d’antan non tarda a scoprire che questo nuovo libro non è che la riedizione dello stesso del 1959 di Ulrico Hoepli Editore. Un testo, stesso formato ma allora con brossura telata verde, dorso beige e titoli dorati incisi, che sta nella sua libreria.

Da uno sguardo sinottico sulle due edizioni si coglie subito la nuova raffinata impostazione editoriale che ricalca lo spirito di quella prima edizione, quasi da apparire la stessa, ma con qualche scarto grafico e taglio delle immagini che rappresentano, assieme alle Fotografie di Stefano Topuntoli degli stessi edifici come oggi si presentano, un valore aggiunto di notevole significato. Quindi non un semplice reprint, ma anche un nuovo contributo alla rilettura di un periodo importante dell’architettura milanese e non solo. E questo è il compito, soprattutto, del saggio introduttivo di Marco Biraghi e del suo coordinamento scientifico dell’opera.

Uno scritto, quello di Biraghi, che si legge d’un fiato e ci riporta, con l’acume dello storico, a quell’epoca da cui poi si sono sgranate tante vicende del nostro Paese; e non solo per l’architettura. Una adolescenza milanese, la mia, che mi consente si stupirmi nella sua immersione in quel magmatico clima degli anni Cinquanta, della capacità di restituire una sintesi tra architetti, figure, movimenti artistici e culturali, mostre e gallerie, che a me tornano in mente con le associazioni mentali e la memoria involontaria. Tanto si potrebbe dire sull’onda di Biraghi, che ha il dono anche della profondità della scrittura, con un racconto che allude agli ingredienti fondamentali di quell’epoca; e che si può riassumere (anche con qualche termine mio): democrazia, civitas, cultura, patto sociale, condivisione, eleganza, rigore, sobrietà, economia e tecnologia, anche gusto e raffinatezza.

Un libro, quello dell’Aloi d’allora e quello di oggi che è anche qualcosa di più, che è stato fondamentale per la formazione degli architetti della mia generazione in bianco e nero. Uno spregiudicato spaccato sul modo di fare architettura, senza mode e censure, ma in presa diretta con la realtà, con lo “sviluppo delle forze produttive” (come soleva dirsi), dei servizi sociali, delle fabbriche e degli opifici, del terziario, delle case e dei palazzi. Dove non vi erano categorie e giudizi di valore, ma solo l’opera in sé, con la sincerità della sua tecnologia coniugata con una raffinatezza mai arbitraria della forma. E allora le frequentazioni artistiche degli architetti venivano in soccorso. Un libro, quello dell’Aloi e della lettura che ne fa Biraghi, che è la stessa immagine materica della Milano di pietra con le sue cortine di facciate, di architetture industriali, stabilimenti e annessi uffici, che ne fa una città unica nel panorama italiano, conservandone un’anima che resiste alle mode, all’incultura, e al deserto della politica.

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