UCTAT Newsletter n.47 – luglio 2022
di Alessandra Battisti
Alla luce di quanto sta accadendo negli ultimi anni a scala globale: cambiamenti climatici, pandemie e guerre, è quanto mai urgente una riflessione per ripensare gli habitat umani, e considerare da vicino il “come vorremmo vivere” nei tempi a venire. In questa direzione occorre un approccio multidisciplinare all’intersezione tra scienze esatte, scienze umane, pianificazione urbana e tecnologia in grado non solo di studiare l’architettura e le città “ideali” in un contesto globale, ma per intervenire in maniera corretta su di esse, interpretandone la storia e la società attraverso la lente della giustizia spaziale e sociale. La domanda sottesa da queste riflessioni riguarda il modo in cui immaginiamo il futuro del nostro ambiente di vita, i nostri stili di vita all’interno delle città e in ambiti rurali in qualsiasi parte del mondo, e che rifletta le diverse condizioni culturali, ambientali, economiche o sociali in grado di garantire una architettura per l’umanità del presente e di quella a venire.
Pensare alla rigenerazione urbana in quest’ottica, significa incentrare il lavoro di analisi e di sintesi metaprogettuale, oltre che sui consueti ambiti di indagine, sull’intersezioni tra problemi|rischi ambientali e sociali, rendendo visibile l’invisibile, mettendo in discussione il modo in cui pensiamo, parliamo, scriviamo e progettiamo su e di architettura. Approccio che induce a porci domande su quale sia la città ideale del nostro tempo? Cosa e chi conta nel processo di rigenerazione urbana? Quali sono le narrazioni del paesaggio costruito? Quali le storie visibili o invisibili di una città? Come e da chi viene generata la trasformazione?
In questa direzione la rigenerazione degli spazi aperti pubblici urbani gioca un ruolo chiave nello sviluppo di reazioni a micro scala ai fenomeni globali come la pandemia, i cambiamenti climatici e l’emarginazione sociale e sulla loro trasformabilità e influenza salutare sull’ambiente urbano. Gli spazi pubblici riletti in questo modo si configurano come nodi strategici per la rigenerazione con effetti sistemici sul tessuto della città, secondo quella visione che, per dirla con Bruno Latour: “attiva relazioni, provoca discussioni, stimola opposizioni e adesioni; insomma produce un contesto”.

Rilevante appare dunque il come gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite comprendono il potenziamento dell’inclusività, della sicurezza, della resilienza e della sostenibilità delle città e degli insediamenti umani (SDG-11), con un obiettivo specifico sull’accessibilità degli spazi verdi e pubblici (Target 11.7). Per monitorare le azioni, le minacce e i risultati relativi a questo obiettivo, UN-Habitat ha sviluppato un Programma Globale per lo Spazio Pubblico (GPSP), che si basa su una definizione inclusiva di spazio pubblico come “tutti i luoghi di proprietà pubblica o di uso pubblico, accessibili e godibili da tutti gratuitamente e senza scopo di lucro” (Carta dello spazio pubblico, art. I.6). Le città, infatti, oggi più che mai, si configurano come luoghi di inaccettabili diseguaglianze, che si consumano tra lotte fra poveri ed emarginati o dove si tentano in quel che resta ai margini esperienze di “governo di prossimità”.
Nel 2020, in una nota relativa alla pandemia di COVID-19, l’UN-Habitat ha sottolineato il ruolo chiave degli spazi pubblici “sia per limitare la diffusione del virus sia per fornire alle persone modi per rilassarsi o per svolgere il proprio sostentamento”, enfatizzando la loro multifunzionalità e adattabilità. Pertanto, la gestione, la manutenzione e la progettazione degli spazi pubblici devono fare i conti con la loro natura complessa, che coinvolge l’ambiente costruito, sociale e naturale, e devono considerare strati tangibili e intangibili, visibili e invisibili della città, in cui confluiscono narrazioni, componenti fisiche, usi temporanei, significati simbolici e identitari. Di conseguenza, sono necessari adeguati approcci e metodi multidisciplinari e sistemici per integrare i contributi di diversi campi di studio che attraverso strumenti di sintesi multicriteria possano fornire ai decisori scenari di sviluppo olistici e sintetici. In un’epoca segnata dall’approccio data driven, il collecting data e le mappature da sole non bastano «le mappe mentono sempre e i veri posti non ci sono mai» scriveva Hermann Melville in Moby Dick.
In questo quadro logico il gruppo di ricerca da me diretto del Dipartimento PDTA Pianificazione Design Tecnologia dell’Architettura dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza ha sviluppato diversi metodi, modelli e indicatori per affrontare la complessità di questi spazi, composti da strati tangibili e intangibili, visibili e invisibili, anche a cercare di colmare quel divario che esiste tra indagine teorica e esigenza delle amministrazioni pubbliche, soluzioni e strategie, linee guida praticabili e modelli economici, logiche di investimento e rapporti di mercato. Questa prospettiva non esclude la modellazione matematica, ma spinge alla definizione e all’integrazione di sistemi multidisciplinari di indicatori, aprendo la strada a una tendenza alla parametrazione che è oggetto delle nostre ricerche.

Ed è qui che interviene lo studio delle mappe da quelle geografiche a quelle ecologiche, passando per quelle bioclimatiche fino a quelle psicologiche. Inoltre, i recenti progressi nella tecnologia di rilevamento e nelle metodologie di elaborazione dei dati hanno contribuito fortemente a un rinnovato interesse per i dati biometrici come potenziale strumento di alta precisione per studiare anche gli effetti fisiologici di stimoli selezionati sugli esseri umani utilizzando misure più oggettive e in tempo reale. In questo contesto la ricerca sulla rigenerazione riporta un più ampio spettro di tecniche che identificano un migliore equilibrio tra resilienza umana e resilienza urbana, affrontando il problema della salute in un’ottica olistica.
Concentrarsi su questa mediazione, significa mettere a punto una metodologia verso la definizione di linee guida per la rigenerazione del sistema “spazi aperti” fondato su un approccio multidisciplinare e metodi di analisi multi-criteriale (MCA), supportati dall’analisi geospaziale e dalla tecnologia GIS, e la definizione di questo andamento analitico deduttivo, che porta alla costruzione di scenari progettuali e processi partecipativi in grado di coinvolgere l’amministrazione pubblica, gli stakeholder, gli esperti e i ricercatori, trasforma l’architetto in un mediatore di “deriva”.
“Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari”. (G. Debord, Théorie de la dérive, novembre 1956).