Ripensare Milano

UCTAT Newsletter n.53 – febbraio 2023

di Fabrizio Schiaffonati

Milano, come molte città, è interessata da un notevole sviluppo edilizio. Un nuovo ciclo che segue le dismissioni industriali del secolo scorso. Aree e interi comparti disponibili per un rinnovo urbano in grado di segnare il destino della metropoli futura. Sono già visibili diversi interventi, soprattutto sulle zone di trasformazione più appetibili per centralità e accessibilità. Ma altri cantieri sono in dirittura d’arrivo.  Se ne discute e le operazioni immobiliare sono spesso celebrate come strabilianti risultati della concertazione tra privati e amministrazione comunale. Altri hanno osservato che questo processo non è strategicamente orientato da un Piano di Governo del Territorio, come ridenominato il Piano Regolatore Generale, né da Piani Particolareggiati di iniziativa pubblica, né tanto meno da Master Plan o altri strumenti similari come nelle città europee. Da tempo è stata celebrata la morte dell’Urbanistica, come disciplina delle relazioni spaziali e sociali per contemperare diversi interessi con l’obiettivo di una maggiore equità, per il superamento degli squilibri territoriali, come politica amministrativa e di risanamento ambientale; per delegare invece agli investitori il compito di proporre piani e progetti che non possono che ricadere in ambiti circoscritti ai loro interessi. Alla città pochi i benefici, con gli oneri di urbanizzazione e realizzazioni di qualche servizio a sconto: opere in generale sempre tardive, il contrario di quello che si dovrebbe fare e anche come in passato s’è fatto.

Cresce quindi una città degli squilibri, con uno strabismo che mentre celebra goffamente i grattacieli della down town promette il recupero delle periferie, ormai abbandonate a sé stesse. Un processo economico governato dal capitale finanziario che travalica confini e contesti locali, imprenditoria dei territori, geocomunità e realtà sociali. Una prospettiva che nella affabulazione ideologica anche di chi non manca di richiamarsi a una politica progressista sembra ineludibile, col paradosso che alla potenza della tecnologia non possa che corrispondere il risvolto della faccia della miseria. L’abbandono quindi del Riformismo, di un ragionevole pragmatismo, della Politica come partecipazione, per una centralizzazione invece del sistema decisionale. Una visione tecnocratica che opera contro il decentramento, la responsabilità e la tutela della persona. Un indirizzo opposto a una visione liberale, a cui tutti a parole invece si premurano di volersi riferire.

Come non vedere questa parabola e le conseguenti ricadute che l’onestà intellettuale non può negare? Un esempio tra i tanti e il più celebrato: il Centro Direzionale con l’emblema della piazza Gae Aulenti. Nel recente passato si sono confrontati progetti per la trasformazione della zona più strategica di Milano: da Belgiojoso a Gregotti, da Zanuso a Rossi, e decine d’altri architetti italiani e di fama internazionale. Proposte tutte orientate a un impianto urbano integrato con un vasto intorno, decongestionato dal traffico, con visuali e assi verdi, viali e promenade, dotazione di sevizi pubblici. Esattamente l’opposto a quanto poi è stato dato seguito: un affastellamento di grattacieli e grattacielini, che sembrano essere sorti con vincoli preesistenti, quindi addossati e con uno spazio pubblico di risulta che non governa le relazioni spaziali, fruitive e percettive, come dovrebbe essere; per non dire della congestione del traffico in incroci e artificiosi sottopassi.

Spostandosi nella zona dell’Expo 2015, della Fiera e di Cascina Merlata la condizione non migliora; anzi l’addensamento è ancor più paradossale, tra svincolo e sopraelevate, strade e autostrade. Contrappasso dell’evento che avrebbe dovuto celebrare un diverso rapporto tra uomo e natura.

Perché questo ragionamento, sempre più fastidioso per chi vive la città come luogo di eventi eccezionali, di fiere, di settimane della moda e di saloni? Per un normale buonsenso, della vita che non è una movida ma un po’ più problematica: con tutta la simpatia per l’entusiasmo e la bellezza giovanile. Poi col passare del tempo il giovanilismo di chi invecchia diventa anche ridicolo. Chi amministra dovrebbe far tesoro del passato per traguardare il futuro, mai semplice da perscrutare.

La memoria, tema abusato in ogni celebrazione come una dovuta spolveratina, dovrebbe riportarci anche alla Milano del suo civile sviluppo, dei suoi quartieri popolari solo di ieri, dell’Ina-Casa e della Gescal, ma anche del Piano Casa della tanta vituperata “città da bere” degli anni Ottanta. Dove vivono i milanesi alle prese coi tanti problemi quotidiani. Quartieri dove negli anni Sessanta sono sorte 22 chiese, con un Piano dell’arcivescovo Montini, per dotarli di uno spazio comunitario, di un sagrato, di un oratorio, di luoghi di incontro che ancor oggi rappresentano dei fondamentali presidi, un riconoscimento anche per quanti altri da ben più lontano continuano ad approdare in questa città dell’accoglienza e di chi se ne fa carico con tante iniziative dal basso. Una volta si diceva “assistenzialismo”, oggi non più con l’emergenza delle nuove povertà.

Edifici religiosi dell’architettura moderna. Alcuni anche insigni, per qualità e autori. Anche quando modesti sempre dignitosi e strutturanti. Come i nuovi Centri Civici del Decentramento amministrativo comunale di cui Milano, con Bologna, è stata antesignana, e le decine di scuole medie realizzate per la riforma della scuola media dell’obbligo.

Marco Romano ha scritto sulla essenza e la struttura della città europea, dei fulcri della sua forma, come la chiesa appunto, il palazzo civico, le piazze e i viali. Una civiltà diversa da altre culture, con una precisa identità in cui la concezione dello spazio rimanda al pensiero giudaico-cristiano. Una identità oggi smarrita in ipermercati, centri commerciali, outlet, discoteche; in spazi pubblici marginali, in aperitivi su marciapiedi tra macchine e inquinamento.

Una identità persa. Non solo un problema di risorse. Viviamo in una società dell’abbondanza come dello spreco. È un problema sociale e politico. Non scambiar lucciole per lanterne e guardare il dito e non la luna. È possibile ritrovare l’anima della città? Così non si intravvede nelle nuove periferie, nell’assenza di un qualche spazio pubblico e luogo civico dove la mente possa trovare ossigeno.

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