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UCTAT Newsletter n.50 – novembre 2022

di Paolo Aina

Cammino per questa nuova città e non riesco a perdermi, tutto mi sembra indirizzato, tutto ha un suo scopo, una sua direzione precisa, univoca.

Gli edifici più recenti mi rimandano un sosia di cui non riesco a scordarmi: lo/mi vedo mentre guardo una vetrina, lo/mi vedo mentre cammino, lo/mi vedo mentre prendo un caffè.

Essere sempre presente, non potermi dimenticare neppure per un attimo ha come conseguenza paradossale quella di non poter riflettere sulle questioni che mi potrebbero interessare, vorrei potermi perdere per ritrovarmi.

Sono venuto in città per essere libero “L’aria della città rende liberi” come recita un proverbio tedesco e mi ritrovo imprigionato nelle vetrate delle costruzioni moderne.

Questi spazi dilatati non offrono nessun rifugio, sono sempre sul loro confine, senza un fine non sono invogliato a percorrerli, a sostare senza scopo e a gironzolarvi, nulla vi si può fare gratis: sostare comodamente equivale ad acquistare qualcosa.

Non solo bisogna acquistare uno spazio, con esso si compra anche un tempo. Un tempo che è un continuo presente e che proprio per questo ripudia la città come insediamento che si è strutturato in un tempo che va ben al di là della nostra presenza.

Un tempo non libero, un tempo sottratto e per questo vagamente angosciante solo legato all’azione che si sta compiendo: il tempo di bere un caffè.

Mi chiedo se in fin dei conti non siano questi spazi così nitidi, così precisi con elementi naturali di una spontaneità imprigionata.

Guardo senza fiato gli alberi sui balconi, le altezze fino al cielo, è una sfilata delle ultime mode costruttive.

È il moderno? Quale moderno?

La modernità nata come liberazione, speranza e affrancamento si è trasformata in un gioco di prestigio costruttivo certo stupefacente ma non inclusivo.

Sono un turista nella mia stessa città, cerco una cartolina da spedire a mia figlia e ne trovo solo con la rappresentazione della città storica e dei suoi monumenti: il Duomo, la Scala, la Galleria, la Stazione centrale…

Vengo a sapere che Milano è seconda solo a Roma per i ricavi dal turismo e per un momento mi sento importante: “Vuoi vedere che riesco a contribuire al benessere generale?”

È un attimo.

Sarei un turista se non abitassi qui, sarei un turista se dopo qualche giorno me ne andassi, visito uno shopping center dove alberi finti stendono i rami posticci sul soffitto e non riesco a sfuggire all’odore del cibo e dall’insistenza di una musica che zittisce il pensiero e la parola.

Qui però ci vivo e non mi basta guardare, stupirmi e forse ammirare i nuovi quartieri, i nuovi edifici, gli sparuti alberelli, le facciate lisce senza ripari, senza storia e senza storie.

Può essere che io non sia moderno, qualcosa di portato sulla spiaggia dalla risacca?

Mi pare che non sia così infatti i luoghi più frequentati quando l’orario di lavoro finisce e quando c’è un po’ di tempo effettivamente libero sono i luoghi storici, quelli con le case basse e senza vetrate specchianti e incombenti, quelli dove lo stare la compagnia degli altri non corre il rischio di essere moltiplicata dagli specchi là, dove se si alzano gli occhi non si vede l’anonimia di un cielo riprodotto su una parete di vetro ma uno spicchio di cielo così bello quando è bello, così splendido, così in pace.

Cammino in città, gli edifici sono molto simili in genere parallelepipedi, la differenza la scopro nei particolari: la forma delle finestre, i portoni incorniciati, la varietà dei materiali di finitura, la diversità dei colori delle facciate, la forma dei balconi di misura inutilizzabile e l’apparente accidentalità degli allineamenti.

Anche qui guardo, le costruzioni non mi ricambiano eppure le sento vicine con le loro storie diverse, qualche monumento mi ricorda un illustre personaggio e mi incita a prendere esempio dalle sue azioni, una lapide  mi rammenta che lì un tempo qualcuno ha sostato o addirittura abitato.

Le case, i palazzi che lungo la via stanno spalla a spalla, si sostengono, si confortano e offrono la possibilità dei portici che mi danno riparo e conforto dall’implacabile sole estivo o dall’insistente pioggia invernale.

Proprio qui mi sembra che lo spazio non sia semplicemente un vuoto e che la comunità cittadina abbia un senso.

Là una fontana in buona salute – al contrario di quella costruita su mio progetto, uccisa dai vicini che non sopportavano il suono dell’acqua – alza verso il cielo degli scrosci dal rumore allegro che invitano ad avvicinarsi, ci si può sedere sul bordo della vasca e immergere le mani nell’acqua, forse sarebbe possibile che dei bambini vi facessero navigare delle barchette come vidi una volta in un importante giardino di una grande capitale europea.

Ecco che mi sento di appartenere all’Europa in questi spazi, sono confortato e orgoglioso della civiltà a cui appartengo, sono intimidito da tutta la storia che traspare e sono oppresso dai disastri che lo stesso atteggiamento ha prodotto al corpo del mondo.

Comincio a rimuginare sul perché questa forma dello spazio accogliente e tollerante, capace di dare conforto e riparo sia espunta e evitata da una mentalità che identifica la modernità con la separatezza, l’isolamento e la parcellizzazione degli spazi vuoti tra gli edifici.

Penso che nel nuovo che si costruisce sarebbe meglio, dove si può, concentrare sia il vuoto che l’edificato: il vuoto esteso e progettato come un parco adibito a passeggio e piacere dello stare e non come enciclopedia o sussidio didattico, l’edificato compatto e tecnologicamente adeguato per il rispetto dell’ambiente, quindi in grado di essere passivamente autosufficiente nei confronti dell’esterno.

Nella storia non abbiamo ancora trovato niente di meglio della città, infatti non esistono sinonimi di questa parola che può avere solo degli aggettivi che la qualificano (universitaria, vecchia, industriale, ecc.)

Non si può fare a meno della città, è il luogo dove, nonostante tutto, è ancora valido il proverbio tedesco, dove i cittadini riuniti in comunità possono ancora sperare di cambiare dove correggere il mondo ha ancora qualche chance.

From the bottom of the ocean

To the mountain of the Moon

Won’t you please come to Chicago

No one else can take your place

We can change the world

Re-arrange the world

(G. Nash; Nash Notes, ASCAP)

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