UCTAT Newsletter n.31 – febbraio 2021
di Dora Francese – Professore Ordinario Università degli Studi di Napoli Federico II
Agenda 2030
In città come in altri ambiti territoriali, diviene ormai improponibile affrontare qualsiasi procedura di implementazione delle azioni progettuali senza far riferimento all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Ricordiamo come quest’ultima rappresenti un «programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai Governi dei 193 Paesi membri dell’ONU»[1]. Ufficialmente avviato nel 2015, il programma prevede alcune Mete per lo Sviluppo Sostenibile da raggiungere entro il 2030, mediante un percorso che ogni singolo Paese dovrà compiere a tal fine. Nello specifico le 17 Mete per lo Sviluppo Sostenibile che l’Agenda ingloba sono: 1) Niente povertà, 2) Zero fame; 3) Buona salute e benessere; 4) Formazione di qualità; 5) Uguaglianza di genere; 6) Acqua pulita e sanità; 7) Energia abbordabile e pulita; 8) Lavoro decente e crescita economica; 9) Industria, innovazione e infrastrutture; 10) Ineguaglianze ridotte; 11) Città e comunità sostenibili; 12) Consumo e produzione responsabili; 13) Azioni climatiche; 14) Vita sott’acqua; 15) Vita sulla terra; 16) Pace, giustizia e istituzioni forti; 17) Sodalizio per le mete.
Non possiamo dimenticare come alcuni di questi obiettivi risultino di difficile adozione nell’immediato, soprattutto a causa di un disinteresse da parte dei governi e dell’industria globale nel rinunciare all’uso dei combustibili fossili e delle materie plastiche ma, ancor più, a causa del forte utilizzo di armi di ogni genere per la risoluzione di piccole liti, per la difesa della libertà e naturalmente per le infinite guerre civili e tra Stati che assillano il Pianeta. Ogni tipo di conflitto, oltre a non rispettare i goal 1, 2, 3, 5, 10, 17 e soprattutto il 16 (Pace, giustizia e istituzioni forti), produce anche una notevole quantità di CO2, maggior responsabile – come sappiamo – dell’effetto serra planetario e delle relative conseguenze climatiche e ambientali.
Goal dimenticati
Allo stato attuale in letteratura e nelle comunità scientifiche di riferimento la questione del 2030 appare prioritaria, e non si trova su Google Scholar un articolo, un libro, una dissertazione dalla quale siano assenti tali problematiche. Anche i governi di tutto il mondo ne hanno confezionato un cavallo di battaglia che cavalcano come se bastasse parlarne per risolvere il problema.
La rivista che abbiamo fondato nel 2014 con il titolo Sustainable Mediterranean Construction[2] si occupa proprio di tali tematiche e, in particolare negli ultimi fascicoli, ha sottolineato l’urgenza di affrontare le questioni legate agli SDGs 2030, anche da parte della comunità scientifica che si occupa di studiare, analizzare e proporre progettualità alle varie scale del territorio. Inoltre, proprio nel 2020 si è proposto di ampliare il margine delle mete con l’aggiunta di altri due obiettivi, che chiarificano e integrano i già detti 17 e cioè: Suolo e preservazione della biodiversità, e Uso responsabile delle risorse. Tali specifiche consentono a chi costruisce o incide sulle trasformazioni ambientali di prestare attenzione anche ad alcuni aspetti più concreti e tecnici, appropriati a cercare soluzioni piuttosto che affrontare le questioni solo in generale. Con la prima meta, si intende sottolineare l’importanza di un elemento eco sistemico che unisce ambiente biotico e ambiente abiotico, ma che fa da substrato a tutto il mondo, vegetale, animale e antropico, e grazie al quale è garantita l’esistenza di boschi, città e campagna, ma che spesso viene trascurato in quanto scontato. Le questioni del suolo da affrontare, oltre alla protezione della biodiversità, comprendono aspetti molto complessi, e lunghi da descrivere in queste brevi note, ma che assolutamente non possono essere più a lungo dimenticati[3]. Mentre, con la seconda si intende dare un taglio maggiormente scientifico e attuativo alle azioni da intraprendere che consiste nello studiare, analizzare e conoscere in maniera profonda e multidisciplinare quali siano i possibili utilizzi sostenibili di tutti i materiali, le forme di energia e l’acqua presenti sul pianeta.
Misure adottate
A tal fine alcune misure di prevenzione e di mitigazione dei danni ambientali, sociali e, in ultima analisi, anche economici (se per economia si intende la gestione delle risorse planetarie e non solo la scienza finanziaria legata alla valuta) sono state intraprese da alcuni Paesi con comunità e governo virtuosi, allo scopo di dare avvio al percorso di raggiungimento delle Mete. Limitando il campo alle azioni legate al mondo delle costruzioni, si può accennare alle numerose campagne di risparmio energetico avviate oramai in tutta Europa, alle decisioni che istituzioni pubbliche e private hanno assunto in merito alla necessità di realizzare costruzioni con materiali, tecnologie e strategie progettuali sostenibili, ma si deve anche ricordare il quadro crescente di network operativi che coniugano azioni di progettualità transitoria e flessibile, con le necessità sociali di comunità a rischio o deboli, mirate a restituire alle zone urbane spazi maggiormente vivibili e salubri, senza tuttavia incrementare le opere in cemento o comunque fisse e irreversibili. Parliamo dei laboratori di design territoriale che promuovono eventi e vision destinati ad attività che coinvolgono i diversi strati sociali, re-immettendo nel luogo memoria e tradizione, utilizzando al contempo le risorse rinnovabili locali[4].
Lungo la strada della transizione da una società di tipo economico lineare a una di tipo circolare, si possono notare alcuni impegni assunti da vari Paesi europei mirati alla gestione dei rifiuti e la conseguente prevenzione per ulteriore aumento di prodotti di scarto non riciclabili o non re-immettibili nella natura[5], oppure da vari enti privati che intendono promuovere un tipo di turismo sostenibile grazie a varie misure “green”[6].
Inefficaci invece si sono dimostrate alcune misure di tipo intermedio che non mirano a raggiungere le mete, ma soltanto a prendere parte alla logica amministrativa e di profitto che permette di accedere alle risorse economiche e legali indirizzate a svolgere alcune azioni.
Altre misure intermedie, intraprese ad esempio in alcune Regioni italiane, ancora non sono in grado di porre dei limiti effettivi allo sviluppo di impatti (tra cui ad esempio l’emissione di gas serra, la produzione di scarti liquidi, solidi e gassosi, la depauperazione di risorse non rinnovabili) poiché non appaiono collegate a un discorso olistico di filiere complete in cui il prodotto, a partire dalla materia prima e nel finire in un loop chiuso di riuso e/o riciclo, sia considerato come un evento transitorio e permeabile, in cui non esista più il concetto di rifiuto e in cui tutte le attività interconnesse alla produzione dei risultato finale e di tutto il suo ciclo di vita siano rigorosamente rispettose di normative coercitive e, al contempo, provviste di incentivi e certificazioni[7].
La nostra parte come cittadini
In ognuna delle misure e azioni proposte nei vari impegni e proposte a diversi livelli di governance, la responsabilità viene condivisa tra enti pubblici, enti privati, amministrazioni locali e sovra locali, e soprattutto gli utenti. Nessun tipo di transizione o riduzione dei rischi ambientali potrà mai aver luogo senza la partecipazione della componente antropica del paesaggio, poiché in ultima analisi anche il rispetto delle normative è scientificamente provato essere un elemento sociale, dipendente certamente dalla struttura organizzativa dello Stato, ma anche dai livelli e dalla qualità della formazione culturale e fisica.
Nel sostenere la necessità di intraprendere misure a sostegno della costruzione di un habitat più rispettoso degli ecosistemi, il ruolo dei cittadini viene riconosciuto nell’attenzione all’uso dei diversi materiali, nella limitazione della produzione di scarti, nella riduzione del consumo di energia e acqua. Alcune di queste azioni possono essere intercettate e curate da un progettista attento e che abbia la possibilità di avere un ruolo in tutto il ciclo di vita del processo edilizio, anche nella fase di esercizio, mentre altro compito è sicuramente demandato alle autorità locali, sia nel momento di promulgare e approvare normative ad hoc, sia in quello di vigilare sulla relativa corretta attuazione e sul rispetto da parte di tutti.
Tuttavia campagne di formazione ambientale sono sicuramente auspicabili e, come si è dimostrato, anche efficaci sia nelle scuole che in altri canali mediatici; scoprire che, limitando il consumo di combustibili fossili, facciamo bene al Pianeta, all’aria che respirano i nostri figli, alla vita di piante e animali, ma anche individuare le cause di alcune malattie nell’inquinamento ambientale, o ancora nell’utilizzo di alcuni materiali[8], contribuisce a creare consapevolezza sulle questioni ambientali e a rendere giustizia a tutte le iniziative mondiali tese alla relativa limitazione dei danni.
Il ruolo dell’architettura e del progetto urbano
Nella gestione del bene pubblico così come nella trasformazione dell’ambiente costruito, sia a livello urbano che peri-urbano o rurale, le Mete 2030 giocano un ruolo essenziale, che non va trascurato soprattutto alla luce di quanto affermato in precedenza, e cioè che le soluzioni attuative e le azioni mirate a investire sulla res technica sono le più efficaci poiché coinvolgono tutti gli elementi ambientali, biotici, abiotici, culturali e naturali. Resta dunque chiaro come l’Agenda 2030, interpretata in tema di sviluppo del paesaggio, non si configuri in modo diverso da quello di una lettura in termini sociali, proprio con l’obiettivo di ristabilire equilibri delicati compromessi dalle ingiustizie ambientali.
Se infatti l’accesso al paesaggio naturale si intende come uso del bene comune a un pubblico multiforme e differenziato, in termini culturali, etnici, di abilità e di reddito è evidente come un ambiente inquinato, privatizzato o di difficile raggiungimento non garantisca la giustizia sociale, ma al contrario crei diverse fasce di accessibilità: le Mete 1, 5, 10 e 16 potrebbero rappresentare proprio una garanzia per il conferimento di un accesso uguale per tutti al bene comune, in particolare quello del paesaggio.
Architetti, urbanisti, ingegneri, designer e tutte le categorie coinvolte nella gestione del paesaggio culturale e naturale che ancora sopravvive alla crisi ambientale, sono perciò chiamati ad agire in conformità all’Agenda 2030, non solo rispondendo ai requisiti delle Mete più specificamente dedicate al settore delle costruzioni (3, 6, 7, 12 e 13), ma anche nella direzione di progetti che siano connotati dalle caratteristiche di solidarietà, condivisione, partecipazione e infine – ma ugualmente importante – rispondenza ai requisiti del singolo utente e delle comunità.
L’obiettivo è dunque quello di un’architettura che non sia mirata a costruire degli oggetti che oscurino la memoria, l’identità e la preesistenza sociale e culturale di un luogo, ma che al contrario configuri vision effimere e temporanee, caratterizzate da tipologie poco invadenti, da tecnologie soft e sostenibili, da materiali riciclati, riciclabili, riusati e riutilizzabili ma, soprattutto, re-immettibili nei cicli naturali.
Azioni del genere, sia operate a scala edilizia che a scala urbana o anche territoriale, si configurano come soluzioni tecniche e al contempo non invadenti, socialmente utili e reversibili, e rappresentano una risposta concreta agli SDGs. In tal modo il paesaggio ritorna protagonista di ogni misura attuativa in risposta all’Agenda 2030 poiché ne rappresenta il punto di partenza e il fine ultimo, mentre i cittadini ne costituiscono parte attiva e partecipativa.
Le tecnologie e i materiali
Un’architettura di tal genere non è esente dall’uso di materiali, al contrario ne richiede una specifica e chiara selezione, basata sulla conoscenza delle proprietà delle materie prime (quali la densità, la conducibilità termica, il calore specifico, la permeabilità al vapore, ecc.) conditio sine qua non per un utilizzo appropriato e, nondimeno, di una rispondenza ai requisiti di sostenibilità.
Se un prodotto è realizzato con un metallo, le prestazioni non saranno certo ottimali per l’isolamento termico, mentre un componente edile costituito essenzialmente di sughero o cellulosa fornirà invece ottime prestazioni di coibenza termica e acustica. Inoltre, in aderenza all’Agenda 2030, si considerano essenziali gli obiettivi a lungo termine e gli eventuali danni sull’ambiente e sull’uomo che il materiale comporta durante tutto il suo ciclo di vita. Il progettista deve basare la selezione su alcuni criteri oggettivi (costo a lungo termine, proprietà dei materiali, prestazioni del sistema prodotto, capacità di integrazione col sistema edificato, adattabilità delle diverse esigenze dell’utente, caratteristiche di aspetto e durabilità, caratteristiche fisiche e dettagliate del prodotto, biologia della costruzione, disponibilità geografica, contenuto di energia interna residua, livelli di tossicità, quantità di acqua impiegata, proprietà acustiche, termiche e di visione, controllo del microclima, ecc.), sia sulla base delle scelte di progettazione che sulla base dell’offerta di mercato e, infine ma non per questo meno importante, sull’Analisi del ciclo di vita[9].
Eventi di trasformazione del paesaggio che consentano il rispetto dell’identità culturale e biotica di un luogo, saranno dunque realizzati con prodotti che preservino le loro qualità e che permettano una totale riciclabilità sia della materia prima che del componente intero, così da ristabilire l’equilibrio esistente prima dell’intervento.
Una nuova tipologia di materiali per la realizzazione di architetture mirate a raggiungere gli obiettivi dello sviluppo sostenibile progredisce negli ultimi tempi sul mercato edilizio: quella dei materiali di origine vegetale.
Alcuni sono utilizzati nella tradizione costruttiva in molte regioni del mondo, altri sono oggetto di tecnologie innovative di più recente ideazione. I prodotti di origine vegetale si prestano a rispettare alcune Mete dell’Agenda 2030, perché si conformano all’uso «di materiali naturali o riciclati; al recupero mirato a migliorare le prestazioni energetiche degli edifici; alla selezione di fonti di approvvigionamento locali o dal mercato di regioni vicine … I materiali che soddisfano tali criteri sono: legno, cellulosa, canapa, hemp-crete (cemento di canapa), lana di pecora, pietra riciclata, cellulosa riciclata, letti di canna, pannocchie, balle di mais, balle di paglia, argilla, sabbia, limo, terra, linoleum»[10].
Le risorse rappresentano infatti il cuore della questione poiché si configurano come inizio e fine di ogni ciclo produttivo e vitale del Pianeta. Se includiamo infatti, come affermano Wackernagel e Rees, «l’uso umano di altre funzioni naturali della natura, come l’assorbimento dei rifiuti da parte della terra e dell’acqua, e la protezione (da parte dello strato di ozono) dalle radiazioni ultraviolette dannose, non è difficile immaginare che le attività umane possano utilizzare il mondo ben oltre la sua capacità del lungo termine»[11].
La risposta bioregionalista
Alla stregua dei materiali vegetali, anche altri prodotti si dimostrano appropriati alla configurazione di architetture temporanee, flessibili, transitorie e soprattutto rimovibili, poiché riciclabili e/o smontabili, come la terra cruda, e in generale tutti i tessili sia di origine vegetale che animale.
Fanno parte di questo ambito, ad esempio, le tensostrutture utilizzate per ospitare i partecipanti ad un evento e per proteggerli da pioggia e sole; i piccoli edifici per informazioni allestiti durante gli eventi. Questi manufatti possono essere realizzati con alcuni materiali che, spesso e in ultima analisi, possono essere reperiti in loco, conservando così, oltre al contenuto di sostenibilità dovuto alle già dette caratteristiche e prestazioni, anche la memoria e la sostanza del genius loci: tale approccio richiama in modo specifico la nuova filosofia bioregionalista, che si può configurare ormai come una delle poche possibili strategie di trasformazione del paesaggio in linea con gli SDGs 2030.
Tale movimento, nato intorno al 1971, prima come processo culturale e poi come movimento sociopolitico, si attesta sul concetto di bioregione, la cui definizione, quale territorio che eredita e possiede caratteristiche di omogeneità fisica e culturale, emerse dalla collaborazione tra Van Newkirk e l’ambientalista militante Peter Berg, uno dei padri appunto del movimento. Il Bioregionalismo si riferisce a entrambi i terreni, quello «geografico e quello della consapevolezza di un luogo e delle idée che si sono sviluppate rispetto al modo di vivere in tale luogo. All’interno di una bioregione le condizioni che influenzano la vita sono simili, e a loro volta queste ultime hanno influenzato l’occupazione umana»[12].
In conclusione, si potrebbe affermare che al momento «non mancano strategie sostenibili. Quello di cui c’è veramente bisogno è l’accettazione intellettuale ed emotiva del fatto che l’umanità è materialmente dipendente dalla natura e che la capacità produttiva della natura è limitata»[13]. Al fine dunque di rafforzare una tale consapevolezza, il pensiero bioregionalista rappresenta un potenziale importante di risposta alle urgenze emerse dall’Agenda 2030.

[1] «The 2030 Agenda for Sustainable Development, adopted by all United Nations Member States in 2015, provides a shared blueprint for peace and prosperity for people and the planet, now and into the future. At its heart are the 17 Sustainable Development Goals (SDGs), which are an urgent call for action by all countries – developed and developing – in a global partnership. They recognize that ending poverty and other deprivations must go hand-in-hand with strategies that improve health and education, reduce inequality, and spur economic growth – all while tackling climate change and working to preserve our oceans and forests» (cfr. https://sdgs.un.org/goals).
[2] SMC: Sustainable Mediterranean Construction. Land Culture, Research and technology, http://www.sustainablemediterraneanconstruction.eu/SMC/Home.html.
[3] Cfr. Paolillo P.L. (2008), “La conservazione della risorsa suolo e il contenimento del processo urbanizzativo: alcuni spunti di buone pratiche nel piano”, Territorio, 45, pp. 99-112; ISPRA (2011), Suolo e territorio, [on-line] https://www.isprambiente.gov.it/files/pubblicazioni/statoambiente/tematiche2011/10_Suolo_e_territorio_2011.pdf; Barel B. (a cura di) (2019), Contenimento del consumo di suolo e rigenerazione urbana, Commentario alla legge della Regione Veneto 6 giugno 2017, n. 14, [on-line] https://www.veneto2050.it/wp-content/uploads/2019/06/COMMENTARIO_lr_14-17_I.pdf; Munafò M. (a cura di) (2019), Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2019. Report SNPA 08/19, [on-line] https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2019/09/Rapporto_consumo_di_suolo_20190917-1.pdf.
[4] Un esempio virtuoso nasce dalla collaborazione tra alcune aziende svedesi e le autorità locali, mirata a sviluppare progettualità e validazione in caso di eventi pubblici, culturali e/o turistici (https://goteborgco.se/en/events/a-sustainable-events-city).
[5] Cfr. allo scopo il progetto di raccolta dell’acqua di scarto in un’isola croata (site: https://prigoda.hr/en/project-ofwaste-water-collection-drainage-andtreatment-in-the-area-of-the-island-of-krk); oppure il riciclo della carta (https://deltpapir.com/).
[6] Si veda il villaggio ecosostenibile di Valamar (https://valamar-riviera.com/hr/naslovnica)/ e, ancora, alcune iniziative in Austria (https://www.salzburgcb.com/en/destination-salzburg/sustainability).
[7] Una particolare normativa che regolamenta tale transizione di filiera a partire dai prodotti per il settore dell’edilizia in Italia è quella dei CAM (Criteri Ambientali Minimi di cui al decreto 11 ottobre 2017 “Criteri Ambientali Minimi per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici pubblici”). Per un approfondimento puntuale si rimanda al sito https://www.minambiente.it/pagina/i-criteri-ambientali-minimi.
[8] Ad esempio, la formaldeide e l’amianto (ormai vietato in Europa) sono i più noti tra i materiali chimici non salubri.
[9] Quasi tutti i sistemi di valutazione degli impatti ambientali si fondano infatti sul basilare metodo di Analisi del Ciclo di Vita (Life Cycle Assessment – LCA) che considera l’intera vita di un prodotto, dall’estrazione e acquisizione delle materie prime, passando attraverso la produzione e trasformazione di materiali ed energia, per proseguire con l’uso e il fine vita, e permette di tener conto degli impatti durante tutto il processo di trasformazione. Progettare seguendo il criterio ciclico può favorire anche lo sviluppo di materiali, componenti e sistemi edilizi innovativi che siano in grado di soddisfare le aspettative di sostenibilità. Infatti un’approfondita conoscenza dei materiali da costruzione passa necessariamente attraverso il complesso processo ricorsivo che distingue le azioni naturali da quelle finora compiute dalla civiltà antropica: se è infatti vero che «il pianeta ci fornisce le risorse, e le risorse si trasformano in rifiuti, e la natura ha la straordinaria capacità, … alimentata dal sole, di trasformare i rifiuti nuovamente in risorse», studiare il processo di produzione di oggetti e edifici va elaborato a partire dal concetto stesso di circolarità, poiché va ricordato che «la vera sfida di oggi è quella di trovare il modo di soddisfare il desiderio della gente di continuare ad avere delle vite ricche e prospere, rendendoci conto allo stesso tempo che abbiamo un solo pianeta». Tutta la vita del prodotto può essere raccontata come un insieme di attività e processi, ognuno dei quali assorbe una certa quantità di materia e di energia, opera una serie di trasformazioni e rilascia emissioni di sostanze solide, liquide o gassose che, introdotte nell’ambiente, possano causare inquinamento. È sulla base degli impatti ovvero dei danni o alterazioni inevitabilmente causati dalla vita di un prodotto, che si giudica il suo peso sull’ambiente, e di conseguenza il suo contributo all’impronta ecologica (cfr. Wackernagel M., Rees W. (1995), Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth, The new catalyst, Bioregional series, USA/ L’impronta ecologica è un indicatore utilizzato per valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della Terra di rigenerarle).
[10] Baker K., Thomson C. (2017) “Seeing the miraculous in the common: re-mainstreaming the use of sustainable building materials”, in 33rd PLEA 2017 Edinburgh, “Design to thrive”, proceedings, NCEUB publ.
[11] Wackernagel M., Rees W. (1995), Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth, The new catalyst, Bioregional series, USA, p. 2.
[12] Berg P., Dasmann R. (1977), “Reinhabiting California”, The Ecologist, Volume 7 n. 10, December, p. 399.
[13] Wackernagel M., Rees W. (1995) Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth, The new catalyst, Bioregional series, USA, p. 156.