Architettare qualcosa

UCTAT Newsletter n.42 – febbraio 2022

di Paolo Aina

Che cos’è l’architettura, cosa intendiamo quando ne discutiamo?

È consuetudine parlarne come la evoluzione e la raccolta degli usi che si sono accumulati nel corso della storia e che costituiscono la traccia per costruire e conformare gli spazi adatti alla vita umana: edifici, giardini, monumenti.

Come si vede è la parola spazio è quella che caratterizza la definizione, ma che cos’è veramente lo spazio in architettura?

Mi pare si possa capire, in prima istanza, come la costruzione di contenitori che definiscono una fruibilità ai fini dei bisogni umani: riparo, piacere, ricordo a cui adesso dobbiamo aggiungere la libertà garantita dalle democrazie dove la “concessione” è stata sostituita dal “diritto” e le esigenze che si affiancano a quelle umane: l’ambiente naturale nella sua interezza a sua volta contenitore indispensabile alla nostra esistenza.

Oggi architettare questa matrioska si è fatto complicato costruire un ambiente massimamente accogliente genera grandi contraddizioni.

Riportare la Natura in città ad esempio è difficile, non bastano alberi e verde; la nostra idea di ambiente naturale è un’Arcadia pittorica; in realtà l’ambiente naturale è molto più complesso, vedere passeggiare sulle strade dei cinghiali genera allarme; in fin dei conti le città sono nate a contrasto e negazione della Natura: l’ambiente favorevole agli uomini è artificiale.

La messa in opera di questa artificialità è compito del costruire, un’azione da negoziare in continuazione tra esigenze di mutamento e l’equilibrio naturale del luogo.

Dobbiamo quindi riflettere: quali caratteristiche debbono avere le costruzioni per essere adatte alla nostra esistenza?

Solo con un’attenzione alla vita e al suo svolgersi, alle sue esigenze, solo comprendendo questo e agendo di conseguenza potremo dare un futuro a quella particolare forma della costruzione che si esprime nel progetto architettonico.

Sono gli interrogativi a cui l’inizio dell’Architettura moderna ha cercato di rispondere attraverso l’astrazione del funzionalismo.

Un fortunato slogan recitava “spazio a misura d’uomo” un grande architetto ne ha fatto pure un manuale con dimensioni per ogni situazione: umani in piedi con un braccio alzato, umani seduti, umani sdraiati tutti belli misurati fino al più piccolo gesto. Le misure però si fermano ad altezza, larghezza e profondità, un funzionalismo ingenuo come ha detto un altro grande dell’architettura.

Lo spazio umano che ha certo bisogno di estensioni funzionali, ma sono il minimo sindacale, viene definito da caratteristiche meno tangibili che però sono necessarie e hanno una misura, nonostante la loro dismisura.

Sto pensando ricordi, alberi e vedute, acqua e frescura, colori e materiali, cose che paiono più abitualmente presenti nelle vecchie città con le sue costruzioni che delimitano uno spazio pubblico accogliente, non narcisista, uno sfondo non oppressivo per il teatro della vita.

La stabilità è la loro caratteristica e come afferma Marsilio Ficino “La stabilità è la proprietà peculiare dell’eternità”

Io credo che l’artificiale e il naturale in cui si vive influenzino il nostro atteggiamento, i nostri pensieri e i nostri sogni.

Lo spazio collettivo ha la sua maggior espressione nella piazza un vuoto costruito per accogliere i cittadini le loro richieste e le loro rimostranze, dove un monumento ricorda chi aveva dato contributi riconosciuti alla collettività, una fontana porta sollievo al caldo estivo e da cui si attingeva l’acqua potabile.

Quasi tutti questi usi sono decaduti; ora la piazza, come metonimia della gente radunata per  richieste e rimostranze si è spostata nello spazio elettronico conformato dagli algoritmi, l’acqua potabile è fortunatamente alla portata di tutti all’interno della propria abitazione.

Restano solo vecchie fontane in piazze antiche a dare frescura nelle estati sempre più calde, i portici a riparare dalla pioggia e a volte i leoni che sostengono le colonne del portico di ingresso alla chiesa con i bambini messi a cavalcioni a fantasticare storie eroiche di re, battaglie, e elefanti.

Lo scopo costruttivo, quello della venustas, diamo per scontate utilitas e firmitas, è quellodi trasmettere le storie che si sono accumulate nella città, della collettività che ha deciso di vivere attorno a quel fuoco, di chi da lontano lo ha visto brillare è arrivato ed è stato accolto, e che a sua volta ha raccontato storie.

È l’accumulo di queste storie che forma i caratteri peculiari della città, espressi con la sua costruzione fisica che ne stabilisce il suo permanere, la sua unicità e la sincronicità del tempo che le storie narrano.

Credo sia questo il problema dell’architettura al tempo nostro, dopo l’abbaglio per cui ogni azione o bisogno potessero essere perfettamente delineati e misurati, e la fede in una tecnica onnipotente, complicata e pervasiva.

Non incantiamoci nuovamente e cerchiamo di scoprire ciò che siamo per diventarlo senza farci parodia di altri luoghi, di altre geografie e di altre situazioni.

In un vecchio libro: “L’Italia costruisce” delle Edizioni di Comunità vengono illustrati, come buoni esempi, gli spazi delle vecchie città italiane: modello di una convivenza e di una gradevolezza dello stare che non è mai venuta meno nonostante le differenze geografiche dei luoghi in cui sono sorti e che li hanno caratterizzati dal punto di vista dell’utilizzo dei materiali, l’attenzione alle condizioni climatiche e sopratutto al fatto che gli edifici portano sulla fabbrica l’impronta delle mani di chi li ha edificati e non appaiono montati con i pezzi di un gioco della Meccano Ltd.

Mi chiedo se il montaggio di questi edifici possa rispondere all’affermazione di A. Perret “la bella architettura fa belle rovine”.

I film apocalittici non ci mostrano nessuna bella rovina, in genere si vedono scheletri sbrecciati in cui non si riconosce nulla di come fossero prima della catastrofe, non rimangono neppure le pareti colorate delle stanze o la traccia delle scale che nelle città bombardate rimandavano alla vita che aveva trovato spazio e forse un po’ di felicità al riparo di quei muri.

Un ricordo, una traccia di chi ci ha vissuto; non si tratta di nostalgia ma della consapevolezza che, pur nella nostra identità soggettiva, non siamo dispersi ma facciamo parte della turbolenta società umana e tutti cerchiamo di progettare il nostro spazio personale al fine di soddisfare il bisogno di benessere e felicità.

Azioni che passano dalla rappresentazione alla riflessione che ci porta l’esperienza e la memoria di chi ci ha preceduto nel bene e nel male.

In fin dei conti la città dei vivi è piena di fantasmi, lì abitò il famoso poeta, questa via ha il nome di un famoso pittore, quella statua è quel celebre politico, pochi sono gli architetti o forse nessuno; le loro opere li dovrebbero ricordare e le opere tanto più si ricordano, tanto più si dimenticano con gratitudine quando  accolgono e fanno da sfondo alla vita che si svolge senza rispecchiarsi nella loro perizia acrobatica ma raggiungendo una semplicità tale da apparire necessaria senza bisogno di giustificazioni.

Grattacielo Martini, L. Mattioni, E. Soncini, E. Soncini, 1953-57, costruzione.
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