Arghillà. Periferia. Reggio Calabria

UCTAT Newsletter n.43 – marzo 2022

di Massimo Lauria e Marina Tornatora

“La rapidità con cui invecchiano i moderni quartieri operai di tutte le città del mondo è davvero incredibile. Si inventano continuamente materiali nuovi e migliori, si piantano alberi verdi e sani ai bordi dei marciapiedi, si fanno opere di canalizzazione, si sistemano condutture, tubi di scarico, lavandini di porcellana e cancellate a prova di ruggine. Ma in capo a due anni la porcellana si crepa e viene tenuta insieme da una colla sudicia e giallastra, gli alberi diventano grigi e sotto lo spesso strato di polvere non possono respirare, i canali si intasano, i tubi scoppiano, dai soffitti delle stanze gocciola acqua e le cancellate di ferro non arrugginiscono per il semplice fatto che da tempo sono scomparse. I muri anneriscono, la malta si sgretola, e le case sembrano soffrire di un’orrenda malattia che fa squamare la pelle. La loro non è una decorosa vecchiaia, ma un rapidissimo logorio.” 

(Joseph Roth, Le città bianche, Adelphi, Milano, 1987 trduzione italiana del testo Die weissen Stadte, 1976)

Joseph Roth, tra le righe del suo tour letterario tra le “città bianche”, anticipava una delle osservazioni che, a distanza di oltre cinquant’anni, ancora oggi risulta tra le più ricorrenti quando si dibatte della città contemporanea. La “debolezza” delle sue parti più recenti, l’inefficacia e l’inappropriatezza delle azioni finalizzate al suo mantenimento, la difficoltà di adeguarne struttura e fisionomia in funzione delle esigenze degli utenti e dei cambiamenti della società.

I nuovi quartieri, egli osservava, diventano vecchi molto più rapidamente di quanto non avvenga per quelli pre-moderni la cui resilienza – spontanea – che oggi gli si riconosce, scaturiva da precise funzioni di “adattamento”, anticipando nella pratica ciò che si sarebbe teorizzato solo molti anni dopo, con il maturare di chiare e ineludibili consapevolezze ambientali.

Una condizione di debolezza molto diffusa in Europa che derivava, e deriva ancora, principalmente dagli effetti dell’onda lunga dell’emergenza casa che anche l’Italia si trovò ad affrontare nell’immediato dopoguerra. Una stagione controversa, quella italiana relativamente a quegli anni, nel corso della quale, a partire dagli scritti di Aldo Rossi sulla città e, passando per gli studi di Giovanni Ferracuti e Maurizio Marcelloni – volendone citare due per tutti – la casa e l’abitare sono assurti a protagonisti di una stagione fervida di speranze e ambizioni. Così come di promesse non mantenute.

Potente rappresentazione di tali contraddizioni socio-tecniche ma anche culturali, il patrimonio italiano dei quartieri di edilizia residenziale pubblica ‒ realizzati con continuità fino a tutti gli ‘80 del Novecento – spesso posti ai margini della città su terreni agricoli, mostrano segni di obsolescenza tecnica, funzionale e strutturale, assieme ad una totale inadeguatezza in termini di benessere e performance energetiche.

Concepiti per un alto numero di cittadini e per uno specifico tipo di famiglia, questi interventi hanno rappresentato una risposta al dibattito sulla casa, che proponeva un modello basato sulla grande dimensione e sulla monofunzionalità.

Tale modello è ormai messo in crisi dalle dinamiche demografiche, dai fenomeni di abbandono, dalla vita stessa degli abitanti e da quell’isolamento dal nucleo vitale della città che continua a non aiutare le comunità a sviluppare un sentimento di appartenenza.

Il risultato è che la cattiva qualità dell’abitare spesso coincide con quella diffusa mancanza di identità che definisce l’anonimo linguaggio della periferia.

Peraltro, quegli edifici, unitamente a quelli pubblici e produttivi realizzati in gran numero nel corso di quegli anni, costituiscono, oggi, la parte più consistente del patrimonio edilizio nazionale che se, da un lato, richiede interventi capaci di andare oltre il semplice efficientamento energetico e adeguamento sismico, dall’altro, solleva la questione più ampia della necessità di riflettere sul costruire contemporaneo.

In questo dibattito si colloca un approfondimento sulla città Metropolitana di Reggio Calabria e, in particolare, su Arghillà, un quartiere di edilizia residenziale pubblica che riprende alcuni segni del PRG di Ludovico Quaroni del 1969 e del piano particolareggiato di Antonio Quistelli, adottato nel ’70, approvato nel maggio ’75 e poi modificato dalle norme d’attuazione dell’80.

Un insediamento emblematico, i cui caratteri comuni ad altre esperienze coeve, sono occasione per avviare una riflessione sulla città moderna in un contesto che non solo presenta notevoli criticità edilizie e sociali, ma anche, secondo la Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie del 2017, la più alta percentuale (78,7%) tra i capoluoghi metropolitani italiani di popolazione residente in aree periferiche per indice di centralità.

Il quartiere di Arghillà, una terrazza sullo Stretto, caratterizzata dalla presenza di un fortino della fine del XIX secolo, è stato edificato negli anni ‘80, su un’area coltivata a vigneto. La sua posizione nel contesto dell’area metropolitana dello Stretto di Messina lo rendevano sin dagli anni ‘60, un sito strategico per la città che si proiettava a Nord verso la zona portuale di Villa San Giovanni e verso l’area dove sarebbe dovuto (dovrebbe?) sorgere il collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria, così come indicato anche nell’ambito del più ampio contesto del Progetto ’80, elaborato nel 1969 dal Ministero del bilancio e della programmazione economica, che ambiva da aprire una stagione di programmazione strategica dello sviluppo del paese.

Per quest’area i richiamati PRG di Ludovico Quaroni e il piano particolareggiato di Antonio Quistelli prevedevano uno sviluppo non solo residenziale. Vi era proposta infatti la localizzazione della Cittadella Universitaria e del Polo direzionale, in seguito invece realizzati in zone più prossime al centro storico.

Lo sviluppo di Arghillà seguirà dunque un proprio corso che ha disatteso indirizzi programmatici, spesso divergenti se non conflittuali. Gli effetti di tali contraddizioni, come la profonda frammentarietà e l’incompletezza generale, sono visibili ancora oggi: malfunzionamento delle reti ‒ fognaria, idrica e illuminazione pubblica ‒ assenza di servizi e della toponomastica, occupazioni abusive e criminalità.

Arghillà oggi conta circa 10.000 residenti, dato incerto per l’alto numero di abusivi, e circa 1.400 appartamenti di edilizia popolare pubblica, a cui se ne sommano circa 500 di edilizia privata cooperativistica. Questo edificato si sviluppa su due principali agglomerati di case: la serie di schiere e il complesso à redans a Sud; il crescent e un gruppo di edifici in linea a Nord.

Il quartiere è diviso urbanisticamente e socialmente in due zone, Arghillà Sud e Arghillà Nord/Modenelle, si presenta come un insediamento quasi del tutto privo di attrezzature, servizi, spazi pubblici, in cui prevale il vuoto, accentuato dalla viabilità carrabile sovradimensionata, dalla distanza tra i corpi di fabbrica e dalla mancanza di un disegno dello spazio pubblico. Un vuoto da cui mergono: i ruderi di alcuni edifici pubblici mai completati che ne aumenta la percezione di abbandono; i terreni coltivati o trascurati, alcuni utilizzati come orti; le corti, prive di funzioni specifiche e, prima ancora, di un disegno definito.

In questa condizione di degrado si registrano alcuni progetti che hanno tentato, e tentano, un ripensamento del quartiere fra i quali, avviato negli anni ’90, il Parco Ecolandia, che, facendo perno sul fortino Gullì, è oggi divenuto un luogo positivo di riferimento per la città, e non solo.

Più recente è invece il progetto AM.E.N.O.C.H.E., finanziato con 15 milioni di euro dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, che prevede l’ammodernamento di 50 alloggi e la realizzazione di un sistema di piazze d’acqua e di aree verdi. Altrettanto significativa la proposta definita nell’ambito del PON Metro, Mappatura, Ricerca/Azione, Laboratori Civici, elaborata da cooperative sociali insieme all’Università Mediterranea di Reggio Calabria, che ha provato, attraverso un’esperienza partecipativa di laboratori, a delineare un profilo di comunità che fosse capace di testimoniare le caratteristiche sociali e fisiche del quartiere e di indicare prime ipotesi per una rigenerazione degli spazi abbandonati.

Il diffuso degrado fisico e sociale di Arghillà impone interventi urgenti, capaci non solo di rispondere alle emergenze oggettive, ma di proporre una visione urbana riposizionata nella più ampia visione territoriale della Città Metropolitana di Reggio Calabria, che si configura come un pulviscolo di piccoli centri interni e un pattern urbano-rurale continuo lungo la costa. Ne deriva l’esigenza di una visione che superi la contrapposizione tra edificato e campagna, non più concepite come entità complementari. Uno sguardo aperto alla relazione tra il mosaico agrario originario, da rigenerare, e la periferia o città diffusa, per concepire nuovi paesaggi. Soluzioni progettuali differenziate potrebbero trovare in questo nuovo pattern diverse soglie, secondo sequenze, a densità decrescente, che vanno dagli strati più vicini al costruito sino a quelli più estesi. Uno spazio naturale-abitato continuo da investigare nelle sue implicazioni spaziali e formali rileggendo la Città in estensione di Giuseppe Samonà, nella quale la campagna è concepita come un’altra città e dove le parti agricole diventano parte di un unico disegno. Questa idea di campagna-città, o città-campagna, alternativa a quella più generica e ormai tradizionale di campagna urbanizzata, propone una contaminazione tra realtà abitative ai margini della città e spazio agricolo. Non si tratta di un’azione di ritorno al rurale ma l’occasione di sperimentare nuovi modelli abitativi per rispondere a una rinnovata domanda sull’abitare e a un diverso bisogno di condivisione e di cura, che intercetta le trasformazioni sociali in corso, in particolare quelle della famiglia, in tutte le sue versioni non-tradizionali.

A questo si aggiunge la necessità di confrontarsi con la crisi ambientale che non può risolversi in consolatori progetti di efficientamento energetico, in un’ottica ecologica ristretta.

Il che rischia – e i prodromi appaiono già intellegibili – di ridurre lo spessore problematico dell’abitare nelle infinite periferie contemporanee, ad una questione di esclusivo livello tecnocratico.

Si ringrazia Maria Lorenza Crupi per la collaborazione nel lavoro di raccolta di informazioni e sistematizzazione delle letture del quartiere di Arghillà.

Quartiere Arghillà.
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