UCTAT Newsletter n.42 – febbraio 2022
di Filippo Angelucci
Se c’è un’evidenza risultante dalla recente pandemia, in merito agli effetti della prima grande emergenza sanitaria della postmodernità sulla presunta crisi dell’architettura e della città, essa può essere di certo individuata nell’aver accertato che tale crisi è ormai parte integrante della quotidianità delle nostre vite individuali e sociali.
SARS-CoV-2, meglio noto come il più altisonante nome di Coronavirus, già seguendo la sua collocazione tassonomica (Riboviria, dominio “ibrido” che non risulta ancora chiaramente classificabile) sembra possedere le caratteristiche appropriate per mandare in tilt tutte le nostre residuali certezze su cosa sia l’abitare nell’architettura e nelle città.
Infatti, né le architetture monumentali, né l’architettura diffusa – espressione di saperi costruttivi meno aulici ma ben più consolidati – sono riuscite ad assorbire il colpo inferto da un agente patogeno così insolito e tenace. Neanche però la produzione edilizia corrente, tanto acclamata per la sua immediatezza pragmatica nel rispondere alle richieste del mercato immobiliare, sembra aver garantito soluzioni esaustive.
La crisi dell’architettura è stata evidenziata dalla quasi totale assenza di flessibilità e reversibilità di case, uffici, scuole, luoghi di culto e presidi sanitari nel far fronte alle nuove impellenti richieste funzionali dettate dal distanziamento preventivo, dall’isolamento per quarantena, dal passaggio alle modalità dello smart working o della formazione blended o a distanza. Alla mutabilità repentina del virus non è certo corrisposta una proporzionata capacità degli edifici di manifestare le fin troppo inflazionate parole d’ordine quali ibridazione, contaminazione, adeguamento, integrabilità e ovviamente “resilienza” che hanno fatto parte, negli ultimi venti anni, del bagaglio terminologico dell’architettura e delle sue sapienti trattazioni teoriche o progettuali elaborate per scongiurare la fine dell’architettura stessa.
Più che scenari di adattamento e di flessibilità, infatti, sembrano essersi realizzate le visioni distopiche di Philip K. Dick o William Gibson, con le loro spesso angoscianti ambientazioni in cui l’architettura sembra sostituirsi integralmente alla natura o essere sottomessa al dominio integrale delle macchine.
Ed è comunque innegabile che persino le città abbiano sofferto non poco per questa recente esperienza, tutt’altro che conclusa. A parte poche proposte per affrontare con soluzioni estemporanee le gravose situazioni registratesi sia negli insediamenti metropolitani come nei borghi o nelle frazioni più elementari, non si è percepita una reazione efficace neanche da parte delle realtà insediative dotate dei più sofisticati strumenti predittivi di pianificazione e gestione delle emergenze e dei cambiamenti. Nella prima fase più critica della pandemia, l’isolamento sociale e lo svuotamento delle città hanno riportato nel presente la drammaticità di narrazioni letterarie o pittoriche delle grandi pestilenze del passato o anche le scenografie più recenti della cinematografia catastrofica. Con la ripresa delle attività, la colonizzazione totale di qualsiasi suolo urbano (finanche gli intoccabili suoli destinati ai trasporti e ai parcheggi, quasi “sacri” per la loro redditività) ha ripreso a marciare verso un’esasperata massimizzazione delle micro-rendite di posizione commerciale, dei non lieux omologati, della congestione semiotica che già Gillo Dorfles denunciava tra le principali criticità del senso dell’urbanità e, verso una sfrenata reconquista della città da immolare “tutta” e finalmente alle spinte estreme della mediterraneizzazione, della disneyficazione e della capsularizzazione di cui, già dal 2004, parlava Lieven de Cauter.
Tuttavia, l’emergenza pandemica costituisce solo un pretesto. Non ci si è trovati di fronte a una singolarità, situazione peraltro precisata dallo stesso Nicholas Taleb che ha confermato che la pandemia non ha nulla a che vedere con l’evento singolare da lui stesso teorizzato con il cosiddetto concetto di “cigno nero”. Epidemie, disastri ambientali, umanitari e sociopolitici si sono sempre manifestati nella storia e anche le probabilità di diffusione pandemica erano state anticipate dagli studi condotti sulle ricadute ambientali dei processi di globalizzazione in atto. A conferma di una ancora scarsa diffusione dei fondamenti delle posizioni scientifiche relativistiche nel pensiero e nel dibattito architettonico, porre l’accento sulla pertinenza della domanda è però fondamentale per definire risposte coerenti. Le domande su una possibile fine dell’architettura devono quindi essere probabilmente poste in un altro senso.
Cos’è è andato davvero in crisi nell’affrontare questa emergenza?
Perché questo momento storico ha reso palese la sensazione generalizzata di un avvio definitivo verso lo smantellamento dei presupposti essenziali per l’esistenza dell’architettura?
E soprattutto, perché nel vissuto delle persone si è riscontrata una cedevolezza del costruito, nella dotazione di servizi e infrastrutture e dell’intera città, ma da parte delle comunità esperte, non c’è stata quella proporzionata e attesa reattività nella presa di coscienza di un quadro di mancate risposte imputabile a un ben più ampio e complesso problema? Un quadro che aveva necessità dell’evento inatteso, dell’imprevisto, del non programmato o programmabile per evidenziare la consistenza di una crisi che si è manifestata essere profondamente strutturale nell’idea stessa di architettura e di città.
Sono domande che pongono una questione di fondo. Ricondurre tali fenomenologie di crisi alla più gravosa percezione della perdita di senso dell’architettura sottende un altro tema su cui è necessario soffermarsi: cosa possa intendersi oggi per fine dell’architettura.
Se si considera la fine di una disciplina che studia la permanenza, lo sviluppo e l’evoluzione dei paradigmi, dei metodi e dei linguaggi del processo di valorizzazione, produzione e trasformazione di beni in ambito edilizio, urbano e territoriale, allora, la sensazione di una fine dell’architettura è sintomatica di una grande assenza. Assenza che riguarda la mancanza di necessarie modifiche o forme di attualizzazione, se non forse l’integrale rifondazione dei fondamenti disciplinari per affrontare le nuove sfide dell’abitare nel quadro della globalizzazione di conoscenze, culture, pratiche e processi dell’abitare.
Al contrario, se la fine è imputabile al progressivo assottigliamento del peso attribuito alle architetture come espressione di un sistema di valori culturali ed economici di un determinato territorio o paesaggio, allora a trovarsi sull’orlo di una fase terminale sarebbe quel corpus di beni che, per qualsiasi ragione, non è più considerato dalla collettività come uno stock di risorse utili per la vita delle persone e lo sviluppo delle società.
Per sgomberare però il campo da quella che rischia di trasformarsi in una non proficua dicotomia tra disciplina e oggetto della disciplina o anche tra processo e prodotto, sembra utile una precisazione. Lo smarrimento diffuso che si registra da parte dei non tecnici e delle figure esperte deve essere fondamentalmente ricondotto alla perdita e alla potenziale fine di un altro essenziale e ineludibile elemento. Un elemento che accomuna sia tutte le discipline dell’Architettura, nelle loro varie scale e ontologie, sia l’Architettura intesa come habitat fondamentale per la specie umana, nell’accezione più estensiva e inclusiva attribuita al termine da William Morris: lo spazio.
È infatti ripartendo proprio dallo spazio che deve essere approfondita la riflessione sugli scenari possibili, probabili e auspicabili di sviluppo disciplinare, per uscire dalla trappola metodologica e psicologica che porterebbe il percorso evolutivo dell’architettura verso una inesorabile fine, forzando l’estensione dei paradigmi della modernità in quelle illusorie certezze di un eterno presente, “surmoderne”, come le ha definite Augé. Ed è sempre dallo spazio che è comunque necessario riprendere le fila di un ragionamento sulle nuove forme di produzione e appropriazione dei luoghi fisici dell’abitare, dal quale ci si è purtroppo mantenuti a debita distanza di sicurezza, accettando i più tranquillizzanti compromessi basati, per citare uno degli ultimi saggi di Bernardo Secchi, su ipotetiche capacità di resistenza infinita degli spazi.
Due immagini evocative, elaborate in ambiti non direttamente legati alle scienze architettoniche ma profondamente vincolati alle mutazioni dell’idea di spazio, possono aiutare per comprendere le grandi sfide rispetto alle quali è necessario riavviare un ragionamento sulle prospettive di ripensamento integrato delle attività formative, abitative e di attribuzione valoriale dell’architettura.
In una prima immagine, Franco Farinelli, geografo, individua negli studi prospettici l’avvio dell’idea moderna dello spazio architettonico, urbano e territoriale. Spazio che diventa misurabile (e anche cartografabile) perché continuo, omogeneo e isotropo. Spazio che però, con la postmodernità e l’intensificazione dei processi di globalizzazione e di digitalizzazione, deve oggi confrontarsi con il nuovo concetto di rete, la rinascita dei micro-luoghi (nella loro forma virtuale) e la perdita della dimensione temporale. Per il filosofo Mauro Ceruti è invece il tema della complessità dei processi di preadattamento evolutivi tra mondo vivente e habitat a poter essere schematizzato attraverso un’immagine spaziale, quella del “paesaggio adattativo”. Un paesaggio in cui ci si muove tra le valli del disadattamento, cercando di raggiungere le complesse alture dei picchi dell’adattamento e dove è importante saper traguardare oltre i limiti dello spazio e del tempo. Ma dove è anche fondamentale incorporare nei processi cognitivi l’idea di errore come un’esperienza che può contribuire proattivamente nella ricerca continua di una simbiotica co-evoluzione dell’abitare tra l’umano, il naturale e le tecnologie.
Ecco allora che già attraverso elementi emergenti quali rete, tempo, adattamento, errore e co-evoluzione, solo per citarne alcuni, da questi due immagini concettuali appena citate si possono cogliere le prossime sfide architettoniche da affrontare, quasi ancora inesplorate, e tutt’altro che premonitrici di una fine dell’Architettura nelle sue varie dimensioni e declinazioni.
Da un punto di vista delle implicazioni negli statuti epistemologici delle discipline architettoniche e del progetto, la fine dell’architettura non sarà decretata da pandemie o altre simili disastri globalizzati, ma dalla reiterazione di un’idea progettuale autoriale, chiusa e univocamente determinata. Continuare in nostalgiche rivendicazioni di campo, esclusivamente concentrate sulle dimensioni estetiche e sugli esiti formali del progetto, non giova all’architettura, tantomeno alla sua ricollocazione nell’ambito delle dinamiche socioeconomico-politiche della contemporaneità e del futuro.
Cercare di comprendere come le innovazioni tecnologiche possano contribuire nella ridefinizione di linguaggi, morfologie e produzione di senso degli spazi abitativi dell’architettura e della città, diventa invece una grande sfida aperta. È necessario capire perché non si possa ridurre l’adattamento alle nuove esigenze ed emergenze solo attraverso la sedimentazione e la concentrazione di dispositivi tecnici (seppure ad alte prestazioni) o la deriva tecnocratica della digitalizzazione; perché, come ed entro quali soglie temporali di riferimento riappropriarsi delle potenzialità del progetto di architettura per tornare a ri-proiettare visioni di futuro finalizzate alla sperimentazione e allo sviluppo di nuove idee dello spazio abitativo e dei paesaggi domestici, del lavoro e urbani. Riappropriarsi, in poche parole, di quelle dimensioni molteplici della disciplina archi-tettonica che, ciclicamente, nel corso della storia, hanno permesso di rielaborare il passato per ripensarne traiettorie di sviluppo ed evoluzione coerenti con il cambiamento dei tempi.
Reinventare quindi i rapporti variabili fra oggetti e città, tra case e spazi vuoti, come suggerisce da qualche tempo Rem Koolhaas, con configurazioni instabili e non definitive, attraverso ibridi architettonici (con capacità mutanti, proprio come SARS-CoV-2), oppure ricucendone quel connubio interrotto che Richard Sennett ha individuato tra lo spazio abitabile (la ville) della città e gli habitus e le pratiche abitative delle persone (la cité).
Forse però non è tutto confinabile entro la sola dimensione dell’esperienza progettuale. Per quanto riguarda le dimensioni produttive, organizzative e valoriali del fare architettura, è necessario scongiurare una fine che è imputabile soprattutto alla cesura che si è determinata tra una visione dei valori “fast”, usa e getta e senza futuro della contemporaneità e gli imperativi valoriali che sono invece imposti dagli obiettivi della sostenibilità, questi ultimi, purtroppo, ancora troppo incentrati sul produttivismo a tutti i costi di oggetti e cubature (architettoniche).
Al contrario, è forse il momento di iniziare a soffermarsi sui processi e sulle forme di produzione dello spazio architettonico che finalmente possano condurre al superamento delle logiche che prospettano gli orizzonti realizzativi dell’architettura, ma anche operativi per gli architetti, in una perenne condizione di dipendenza dalle sole grandi disponibilità patrimoniali e del mecenatismo.
Restano invece quasi del tutto inesplorate questioni riguardanti il coinvolgimento nei processi produttivi della qualità architettonica, con finalità socialmente utili, delle nuove forme del capitalismo, non solo finanziario, ma anche culturale, informativo e del riuso delle risorse, o anche nelle strategie di crowdsourcing e di valorizzazione dello spazio e dei suoi usi condivisi, secondo i principi della cooperazione e della co-progettazione.
E, più in particolare, sono ancora debolmente esplorati i processi che coinvolgono la produzione dello spazio architettonico in quei contesti non direttamente ascrivibili nell’elenco delle tipologie edilizie o infrastrutturali. È importante indagare quindi come l’architettura possa contribuire ad “abitabilizzare” lo spazio, come suggerisce Yona Friedman, a produrre valore collettivo dagli scarti, dai “paesaggi degradati”, dalle residualità della crescita urbana senza controllo, dalle marginalità e dalle frontiere tra città, periferie e campagna. Forse è anche urgente arrivare a rimettere in discussione i paradigmi della densità, almeno affiancando ad essi una declinazione dei processi di produzione dello spazio che torni a considerare utile anche la densificazione degli spazi vuoti e l’intensificazione delle spazialità interstiziali.
Probabilmente è partendo da tali questioni ancora aperte che si può asserire che l’Architettura non sia finita; anzi, essa è solo di fronte a un ciclico bivio, in cui la pandemia sta ricoprendo un ruolo importante nell’epifanizzare il tempo di un necessario cambiamento di rotta.
