UCTAT Newsletter n.43 – marzo 2022
di Andrea Giachetta
Sembrerebbe il titolo di una moderna favola per ragazzi, ma non lo è. Il Biscione, Le Lavatrici e La Diga sono, in realtà, i nomignoli con i quali i genovesi hanno battezzato tre enormi – e forse i più noti – complessi di edilizia sociale ligure, realizzati a Genova, tra i primi anni ’60 e la fine degli anni ’80. I progettisti sono, rispettivamente, Luigi Carlo Daneri, Aldo Luigi Rizzo e Piero Gambacciani, tra i più importanti sulla scena locale di quel periodo.
Come a livello nazionale, anche a Genova, gli architetti affermati si misuravano allora – un passaggio quasi obbligato dalla fine degli anni ’40 per un quarantennio – con il tema dell’edilizia sociale che, dagli Novanta, perde invece totalmente e improvvisamente la sua centralità. Questo avviene non perché l’emergenza abitativa sia ormai risolta, ma, semplicemente, perché il dibattito pubblico – e, quel che è peggio, anche quello architettonico – cessa sostanzialmente di occuparsene, di pari passo con la riduzione e poi la sostanziale scomparsa di finanziamenti. Per capire in quali termini stia la questione, basti pensare che, a fronte dei 25.000 alloggi edificati a Genova nei soli anni ’70 sulle coline della periferia, nel primo decennio degli anni duemila ne sono stati invece realizzati, per una domanda stimata di 10.000, meno della metà dei 5.000 previsti dal Piano Urbanistico Comunale del 2000, ovvero un decimo di quelli di trent’anni prima.
Le disponibilità economiche per l’edilizia sociale si sono praticamente azzerate e sono state amministrate con grandissima inerzia. I pochi fondi a disposizione sono stati correttamente utilizzati per alcuni interventi sull’esistente che solo raramente sono riusciti però a reinterpretare un patrimonio che a Genova sarebbe oggi persino sovrabbondante, ma che è così inadeguato in relazione agli attuali standard energetico-ambientali, sottoimpiegato e mal utilizzato rispetto alle esigenze abitative odierne da non essere in grado nemmeno lontanamente di soddisfarle.
Il Biscione, Le Lavatrici e La Diga, nell’immaginario della cittadinanza ormai simbolo dell’edilizia sociale di un fortunato/sfortunato periodo di ardite sperimentazioni a basso costo (sulla pelle delle persone), sono caratterizzati ciascuno, oltre che da un particolarissimo e differente rapporto con il contesto orografico, da un diverso, ma simbolico destino nei decenni a seguire.
Il “Biscione”, in realtà Quartiere Forte Quezzi, fa parte di un insieme di edifici a nastro (il più noto dei quali, la Casa A, prese ad essere soprannominato così per la sua forma sinuosa sulla collina) realizzati, per una lunghezza complessiva di oltre cinquecento metri, per conto dell’INA-Casa, su progetto coordinato da Luigi Carlo Daneri con Eugenio Fuselli, tra il 1962 e il 1968, sulle alture della Val Bisagno. Allievo di Marcello Piacentini, Daneri fu il protagonista della scena architettonica genovese del primo dopoguerra ed è una figura piuttosto nota anche a livello nazionale.
Il Biscione, all’epoca della sua costruzione (quella del Megastrutturalismo in architettura), fu subito considerato uno degli interventi di edilizia sociale più audaci, sia per la proposta progettuale chiaramente ispirata al lecorbusieriano Plan Obus, sia per la densità abitativa (con quasi 4.500 abitanti, 2.000 nella sola Casa A). Se, da un lato, fu severamente criticato per la sua imponenza – nel 1968 Italia Nostra lo incluse tra gli Orrori d’Italia[i] e Renato Bonelli ne parlò sul n.41 (1959) di L’architettura Cronache e Storia come di un alienante “alveare” “di forma e dimensioni tali da mortificare ogni esigenza di carattere individuale”[ii] – dall’altro ebbe buona fortuna critica tanto che Manfredo Tafuri lo descrisse come “forse il più spettacolare complesso residenziale del secondo settennio INA-Casa”[iii] e Bruno Zevi lo definì “coraggioso e giusto”[iv]. Non altrettanta fortuna accompagnò questo esperimento di edilizia intensiva di massa dal punto di vista sociale, per la difficile raggiungibilità dal centro (le funicolari e gli ascensori progettati non furono mai costruiti), la carenza di servizi (anch’essi in parte previsti e mai realizzati), l’eccessiva densità e scarsa qualità abitativa.

Il complesso Pegli 3, ribattezzato Le Lavatrici per l’evidente richiamo formale delle bucature delle terrazze agli oblò di questi elettrodomestici, ospita, in più corpi di fabbrica, oltre seicento alloggi e fu realizzato, su progetto di Aldo Luigi Rizzo, tra il 1980 e il 1989, a ponente della città, con una particolarissima disposizione a sella sul crinale della collina di San Michele. Di grande impatto visivo e paesaggistico – anche se c’è chi, come Renato De Fusco, lo considera come “un positivo esempio di come si debba intervenire nell’ambiente di natura”[v] – il complesso rappresenta, anche per via di una serie di funzioni pubbliche previste e mai realizzate, un esempio di mancato raggiungimento di troppo irreali pretese progettuali e aspirazioni sociali poco calate nella realtà. Rizzo (laureatosi con Daneri) benché non notissimo, è tuttavia, insieme al più vecchio Robaldo Morozzo della Rocca, uno degli interpreti più originali e interessanti dell’architettura ligure del dopoguerra e la sua opera andrebbe studiata e riscoperta (al di là del singolo criticatissimo episodio delle Lavatrici).

La Diga (in realtà Diga Rossa e Bianca, dal diverso colore dell’involucro dei due corpi di fabbrica) è un intervento di edilizia residenziale pubblica di oltre cinquecento alloggi, realizzato, tra il 1984 e il 1990, nel quartiere di Begato in val Polcevera, su progetto di Piero Gambacciani, come un corpo lineare trasversale alla valle con l’idea iniziale (poi non perseguita) di collegare i due versanti. Conosciuto per la sua particolarissima forma, che ricorda proprio quella di una diga e nella quale riecheggiano quelle del Monumento continuo di Superstudio o dei Quartieri paralleli per Berlino degli Archizoom[vi], il complesso, pur se innovativo sul piano formale, funzionale e tecnologico (sistema costruttivo a banches et tables con involucro in blocchi cementizi alleggeriti rivestiti di lamiera grecata colorata coibentata), rappresentò un tentativo troppo ambizioso e socialmente inadeguato (anche perché vi furono collocati alcuni soggetti pericolosi), divenendo, in pochi anni, un luogo di emarginazione e insicurezza urbana, simbolo del degrado delle periferie cittadine. Gambacciani, pur se non molto noto fuori dai confini cittadini, progettò alcuni degli edifici più rappresentativi (e discussi) della Genova di quegli anni, come il grande e centrale complesso di Corte Lambruschini, con le sue torri per uffici che spiccano in piazza Brignole.

L’interesse di queste tre colossali opere sta anche in quel che è ad esse è successo negli anni a seguire.
Il Biscione ha avuto il destino più comune a questo tipo di edilizia: nonostante le polemiche sulle condizioni di vita dei suoi abitanti e il progressivo abbandono delle poche attività commerciali presenti nel quartiere, salvo parziali interventi di manutenzione (alcuni dei quali previsti attualmente tramite l’ecobonus), è sostanzialmente intoccato da quando fu costruito, testimone di un’epoca che ha lasciato ingestibili giganti nelle periferie di molte città. I mancati interventi di riassetto complessivo si devono all’inerzia generalmente mostrata dal gestore pubblico nell’affrontare questo genere di situazioni e forse in parte (e comprensibilmente) anche all’autorialità del progetto, ormai riconosciuto come monumento urbano. Soprattutto però quello che pare evidente è la difficoltà strutturale nell’affrontare interventi unitari su complessi edilizi così mastodontici e con un numero così alto di alloggi e famiglie ospitate. Nell’affasciante e antiprovinciale sogno gigantista di Daneri di dar forma a una periferia nuova per la città di Genova non c’era però traccia dell’incubo di chi l’avrebbe vissuta non potendola più adeguare a nuove esigenze.
Le Lavatrici hanno invece subito, negli anni, un destino differente. Da sempre molto criticate per la loro invivibilità, sono state oggetto di alcuni interventi non unitari di riqualificazione straordinaria anche in ragione dell’assetto proprietario assunto nel tempo che ha visto il riscatto di parte degli alloggi ed interventi sporadici mossi dalle intenzioni dei privati. Nella parte ancora pubblica, Le Lavatrici sono state, invece, parzialmente oggetto di un interessante progetto pilota unitario di diagnosi, simulazione e riqualificazione energetica e ambientale condotto nell’ambito del progetto R2CITIES (Settimo Programma Quadro), al quale hanno partecipato alcuni colleghi dell’Università di Genova, i Proff. Enrico Dassori, Renata Morbiducci e Clara Vite con il loro gruppo di ricerca. Il progetto ha riguardato 18.000 mq di superficie abitabile e differenti tipologie del complesso edilizio che sono state utilizzate anche come laboratori di raccolta dati, utili per successivi interventi. Aspetto innovativo del progetto è stata la gestione informatizzata della riqualificazione sostenibile e la messa a punto di un modello operativo utile a supportare le scelte dei progettisti[vii]. L’intervento è interessante non solo in relazione ai suoi esiti energetico-ambientali e perché condotto con soluzioni mostratesi efficaci anche se a bassissimo costo, ma anche perché capace di comprendere a salvaguardare l’identità architettonica del complesso. È un raro esempio di come l’enorme patrimonio dell’edilizia sociale delle nostre città possa rappresentare ancora una risorsa.
Destino ancora differente è toccato alla Diga di Begato che, a partire dall’agosto 2020, è stata demolita (le foto impressionanti del processo appaiono in questo articolo di Repubblica: https://genova.repubblica.it/cronaca/2021/10/22/foto/genova_a_begato_non_c_e_piu_la_diga_ecco_come_e_cambiato_lo_scenario-323361788/1/ ). L’operazione (simile a quella per la Vela verde di Scampia e pare effettuata con gli stessi mezzi) è stata accompagnata da una quantomeno sconcertante azione mediatica attraverso la quale le autorità comunali e regionali hanno salutato come un successo politico e sociale la cancellazione degli oltre cinquecento alloggi di quello che è stato definito un “mostro” di cemento e la loro futura sostituzione con una sessantina di nuovi alloggi in tre palazzine immerse nel verde ed eco-compatibili… come se fosse una soluzione plausibile al problema, come se fosse la soluzione (sic!).
Al di là della (ormai, per abitudine, tollerabile) retorica con la quale viene salutato, da chi lo fa, ogni intervento pubblico (fosse anche una demolizione), è evidente che questo terzo destino non è plausibile diventi quello di intere periferie, anche perché l’emergenza abitativa, pur avendo cambiato forma, non è per nulla superata. Quantomeno miope, per come è stata eseguita e propagandata, questa demolizione sembra rispondere alla stessa logica che ha prodotto quasi tutte le nostre periferie fino agli anni Ottanta: ovvero fare senza domandarsi troppo cosa, senza interrogarsi realmente sul futuro, sulle esigenze che i cittadini esprimo e probabilmente esprimeranno (e, oggi, senza nemmeno più lo sforzo intellettuale e progettuale del passato).
Non è questa la sede per approfondire quali siano le esigenze attuali e le prospettive abitative per Genova, ma un solo esempio dell’attuale situazione della città può bastare a rendere più chiara la breve riflessione qui condotta. Il progressivo invecchiamento della popolazione è uno dei fenomeni più preoccupanti in Europa; la popolazione italiana è tra le più vecchie; la Liguria, in particolare, ha l’indice di vecchiaia più alto d’Italia e Genova, con quasi il 30% della popolazione ultrasessantacinquenne, è una tra le grandi città più vecchie d’Europa.
L’invecchiamento della popolazione si accompagna, nel capoluogo ligure, a una situazione del patrimonio abitativo particolarmente critica da molti punti di vista e soprattutto in relazione al taglio (dimensione e organizzazione) degli alloggi, specie nelle aree periferiche. La richiesta di alloggi era infatti paradossalmente meglio soddisfatta all’inizio degli anni Novanta che non oggi, nonostante la popolazione sia calata molto negli anni (circa 800.000 persone nel 1971 contro le 570.000 attuali). Il motivo è legato anche all’aumento delle residenze occupate da singoli (con dati che hanno superato, negli ultimi anni, il 40%). Questo significa che una percentuale molto rilevante delle case costruite per famiglie alcuni decenni fa è oggi occupata da anziani soli.
Gli esiti negativi di questa situazione sono differenti: condizioni di vita critiche specie per gli anziani, spesso costretti ad abitare da soli, senza mezzi per spostarsi autonomamente, in case ingestibili e situate in posti periferici difficilmente accessibili, mal serviti, con pochi esercizi di vicinato, con una rete sociale spesso debole se non inesistente, situazioni di degrado, rischio, scarsa sicurezza e pericolo; l’impossibilità – anche per il tipo di utenza – di farsi carico di un’adeguata manutenzione; soprattutto, l’utilizzo improprio del patrimonio edilizio esistente a fronte di una domanda di alloggi per famiglie impossibile da soddisfare, anche in relazione alla presenza di un’immigrazione caratterizzata, nel genovese, da una decisa presenza di nuclei familiari.
È forse a questo genere di problemi che occorrerebbe cominciare a pensare di rispondere, possibilmente salvaguardando le risorse costruite (e, perché no, anche il loro valore storico-culturale e architettonico quando esista), ma riadeguandole rispetto alle nuove esigenze energetico-ambientali e funzionali.
Per questo serve riaccendere il dibattito, servono fondi, servono operazioni progettuali e sociali colte, chirurgiche, misurate e condivise, sperabilmente sostenibili, con meno cemento e meno proclami, per interventi che il senso comune non trovi subito il modo di ribattezzare con nomignoli scherzosi.
[i] Mugnai F. (2016), Un margine per Genova. Il quartiere residenziale di Forte Quezzi di Luigi Carlo Daneri, Firenze Architettura,1 p.48.
[ii] cit. in Bacci F. (2021), Quartiere residenziale Forte Quezzi, Sagep, Genova, p.5.
[iii] Tafuri M. (1986), Storia dell’Architettura Italiana: 1944-1985, Torino, Einaudi, p.61.
[iv] In un articolo de L’Espresso del 1957 cit. in Franco G., Musso S.F. (2016), Architetture in Liguria dopo il 1945, De Ferrari, Genova, p.180.
[v] De Fusco R. (1986), Per Pegli 3 in Bona E., De Momi P., Aldo Luigi Rizzo. Percorsi di architettura, Costa & Nolan, Genova, p.88.
[vi] Rocca A. (2022), Epica e beffarda. Gli ultimi giorni della Diga, in Bertagna A., Giberti M. (a cura di), Selve in città, Mimesis, Milano, p.175.
[vii] Dassori E., Morbiducci R. (2015), Ottimizzazione nella scelta degli interventi in un processo europeo di riqualificazione sostenibile, Il Progetto Sostenibile, 36-37, pp.132-139 e Morbiducci R., Vite C. (2014), Applications of a Methodology for a Sustainable Requalification Project, in Madeo F., Schnabel M. A. (eds.), Across: Architectural Research through to Practice, Genova University Press, pp. 529–540.