Il progetto delle opere pubbliche dopo il decreto semplificazioni

UCTAT Newsletter n.36 – luglio 2021

di Andrea Tartaglia

Le problematiche legate alle ripercussioni economiche della pandemia e poi legate all’esigenza di riuscire ad utilizzare i fondi europei a supporto del PNRR (Piano nazionale di rilancio e resilienza) nei tempi vincolanti definiti calla Commissione Europea hanno spinto gli organi di governo ad intervenire su alcuni elementi contenuti nell’attuale Codice dei contratti pubblici (Decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50).

In particolare le modifiche più significative sono state introdotte nel 2020 con Legge 11 settembre 2020, n. 120 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitali» – Decreto Semplificazioni) e nel 2021 con il Decreto-Legge 31 maggio 2021 , n. 77 (Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure).

Rispetto al quadro normativo che si è configurato intorno alle opere pubbliche a partire dalla Legge Merloni (Legge 109 del 1994), soprattutto lo strumento normativo del 2021 si differenzia con alcuni contenuti di particolare interesse ma che paradossalmente ribadiscono, senza tuttavia risolverle definitivamente, molte delle criticità che sembrano insite nel sistema italiano.

Primo elemento degno di nota è che, quando vengono introdotte nuove strutture e ruoli da coprire per velocizzare e snellire i processi amministrativi legati alle opere pubbliche, viene sempre individuato un budget da utilizzare nelle diverse annualità, mentre in passato eravamo abituati a frasi tipo: “dall’attuazione del presente codice non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

È evidente come alcuni interventi portino con sé l’esigenza di investimenti che tuttavia saranno facilmente recuperati con i benefici delle scelte adottate e finalmente anche il normatore pubblico ne ha preso atto.

A valle di questa premessa, molteplici sono stati gli interventi puntuali finalizzati da un lato a contenere i tempi delle procedure amministrative. Si è intervenuti sulle conferenze dei servizi, sulle procedure di VIA, VAS, sulle autorizzazioni da parte della Soprintendenza e sul dibattito pubblico. Si è poi intervenuti per rendere più facile l’intervento in situazioni di opere di particolare complessità e impatto, in situazioni di bonifica o di riconversione di siti industriali. Si è poi intervenuti su elementi già affrontati anche nel 2020 prolungandone i termini di efficacia fino al 2023 e introducendo ulteriori modifiche rispetto alle soglie economiche per l’adozione delle diverse procedure di affidamento e sul subappalto.

Interessante è anche l’introduzione di premialità simmetriche alle tradizionali penali nel caso in cui i lavori vangano ultimati prima del temine contrattuale. Nella stessa logica di guardare problemi e tutele non solo dal punto di vista dell’amministrazione centrale, si è anche intervenuti sul tema del silenzio assenso così da rendere meno impalpabile il suo utilizzo.

Si tratta nella maggior parte dei casi di scelte di buonsenso rispetto agli esiti troppo spesso fallimentari dell’applicazione del Codice dei contratti nelle sue diverse versioni negli ultimi decenni: tempi amministrativi infiniti ben superiori ai tempi di reale sviluppo delle fasi progettuali e autorizzative; sistematico sforamento dei tempi e dei costi contrattuali; farraginosità delle norme e mancanza di un quadro organico, coerente e completo (basti pensare che l’utilizzo del codice del 2016 si basa ancora su un decreto attuativo del 2010 in attesa del “nuovo regolamento unico); norme più restrittive di quelle previste a livello comunitario che nei fatti penalizzano il sistema Italia rispetto ad altri Paesi della UE.

A questo punto però una domanda si pone necessaria. Perché, se queste introduzioni normative, come io onestamente credo, almeno parzialmente faciliteranno il superamento di alcuni “limiti” del sistema Italia rispetto alla progettazione e realizzazione degli interventi pubblici, si è deciso di applicarli quasi esclusivamente agli interventi legati al PNRR e al PNC (Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR) e in altri casi, come le modifiche al Codice dei contratti, si è scelto di temporizzarle?

Alcune scelte infatti o sono corrette o non lo sono. L’uso ad esempio dell’appalto integrato non per forza è giusto solo se applicato in anni bisestili. O è uno strumento utile in alcune situazioni o non lo è. Non può dipendere dall’anno di applicazione.

Il rischio è di creare un effetto doping rispetto all’uso dei finanziamenti europei nei prossimi anni per poi accorgerci che «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

Le soluzioni adottate nel codice dei contratti anche nella versione del 2016 si sono sfortunatamente troppo spesso dimostrate una sovrastruttura che non ha ridotto i problemi (anche di carattere penale) legati alle opere pubbliche, ma ha ulteriormente ingessato e complicato le attività degli uffici; ha reso sempre più elitaria la partecipazione ai bandi e spesso ridotto la presenza di giovani e PMI (quando invece l’obiettivo, giustamente, era l’opposto).

Forse è invece questo il momento di ridare “responsabilità” ai diversi attori del processo edilizio pubblico -in quanto abbiamo più volte sperimentato che la burocrazia non garantisce rispetto ai doli – ripensando l’intero quadro normativo nel rispetto e in coerenza col quadro comunitario per valorizzare le professionalità e capacità reali che oggi vengono umiliate e spesso respinte a favore di asettiche procedure che però non garantiscono la qualità dei risultati come le scelte che si sono dovute adottare nel Decreto-Legge 31 maggio 2021 , n. 77 ben chiariscono.

Le proposte di semplificazione necessarie per perseguire gli obiettivi del PNRR in alcuni casi vanno proprio nella direzione opposta di quella seguita dal normatore italiano nello strutturare l’attuale Codice dei contratti pubblici e questo dovrebbe forse spingerci a riconsiderare il modello stesso su cui tali norme sono state costruite. In particolare nel recepimento delle direttive Europee in Italia si è adottato il così detto gold plating (pratica sconsigliata dalla UE) che ha portato a strutturare un quadro normativo più articolato e complesso di quanto prefigurato dall’impostazione europea, anche con contenuti che sono finiti sotto osservazione per valutare l’attivazione di procedure di infrazione (si pensi ad esempio ai limiti posti al subappalto). A questo punto forse una possibile azione potrebbe essere di azzerare quanto fatto, adottare – come fatto da molti Paesi del Nord Europa per il recepimento delle direttive europee del 2014 riferite ai contratti pubblici – il modello definito come copy out, che consiste nella trascrizione dei contenuti delle direttive nel totale rispetto dei contenuti nella loro essenzialità. Per tutto ciò che non ricade nella soglia europea, si potrebbe poi ipotizzare un quadro normativo ulteriormente semplificato che permetta maggiore autonomia decisionale ma a fronte di una parallela responsabilizzazione sui risultati di chi deve assumere le decisioni.

Costruzione della Metropolitana 1 di Milano, anni Cinquanta.
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