UCTAT Newsletter n.36 – luglio 2021
di Eugenio Arbizzani
Il G20 “Ambiente Clima Energia”, in questi giorni a Napoli, sta portando agli occhi di tutti che la strada per la rivoluzione verde e digitale dei Paesi Europei non sarà indolore ed è irta di incognite, che si renderanno evidenti man mano che saranno varate le riforme e dovranno essere rendicontati i risultati in itinere delle sovvenzioni ottenute; per il nostro Paese in particolare, reduce da un trentennio di progressivo downgrading negli indicatori economici e sociali europei. Vent’anni dopo i tragici fatti del G20 di Genova, le istanze dei manifestanti di piazza sono entrate con pressanti impegni nelle agende dei Paesi europei: tra le richieste dei movimenti una radicale modifica dei modi e degli strumenti della produzione, insieme ad un ripensamento globale sulla sostenibilità ambientale di ogni sua azione economica e produttiva.
L’European Green Deal[1], varato alla vigilia della pandemia quasi ad anticipare le trasformazioni che appaiono ora incontrovertibili, propone una radicale riconversione del sistema produttivo, che dal nostro continente dovrà necessariamente espandersi al restante pianeta. Esso al tempo stesso offre l’irripetibile opportunità ai diversi settori produttivi interessati di adottare quelle azioni di innovazione tecnologica ed organizzativa che – soprattutto nel nostro Paese – sono restate nelle parole dei congressi di settore, ma non hanno mai trovato utili appigli nelle fragili misure di sviluppo industriale dei molti governi che si sono succeduti.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza[2] è, negli enunciati, adeguato al nuovo livello di ambizione della Comunità Europea, la sua concreta attuazione sarà misurata con il metro dei traguardi che saremo riusciti a raggiungere sul cammino del pacchetto “Fit for 55”[3], lanciato ora dalla Commissione Europea verso l’obiettivo dell’impatto climatico zero per il 2050: un piano di riforme per contrastare il riscaldamento globale che punta a trasformare praticamente ogni aspetto dell’economia dell’Unione europea, con uno step fissato già al 2030, quando i Paesi dell’Unione dovranno avere ridotto del 55 per cento le emissioni di gas serra, rispetto ai livelli del 1990.
Nessun’altra grande economia mondiale ha finora messo a punto un piano ambizioso come quello europeo: la portata delle implicazioni sociali di questa “rivoluzione industriale” non pare ancora ben compresa dalla collettività, ma sta rapidamente animando le discussioni in capo ai diversi settori associativi del nostro comparto industriale; non così ancora le agende della politica e della società civile, i cui orizzonti sono purtroppo ben più limitati rispetto ai meno di 30 anni che ci restano per smettere di inquinare. Eppure la quantità di risorse messe in campo giusto un anno fa dal piano Next Generation EU[4], sono molto più di quanto offerto al tempo del Piano Marshall, che pure consentì all’intero Continente[5] di risollevarsi e di ritrovare un nuovo orizzonte di sviluppo sociale ed economico.
Le sei missioni del PNRR, ora definitivamente approvato dall’Ecofin e quindi operativo, prospettano un vero cambio di passo nella politica economica del Paese. Ciascuna di queste opzioni sfida il settore produttivo delle costruzioni a dotarsi di un nuovo paradigma.
Le componenti operative del Piano propongono, nella maggior parte di esse, obiettivi e soluzioni che interferiscono radicalmente con i modi di progettare, sviluppare, produrre beni e servizi, e utilizzare le risorse di energia e di materie di cui il settore delle costruzioni è il maggiore consumatore. Esse sfidano l’intero comparto, tra i maggiori responsabili dell’inquinamento ambientale, ad una radicale ristrutturazione verso la sua decarbonizzazione.
Transizione ecologica e digitale e incremento di produttività e di competitività del settore non sono fattori consequenziali, ma anzi pongono all’intera filiera una sfida complessa, che dovrà passare necessariamente attraverso fasi di squilibrio sociale e sarà ostacolata ad ogni passo dalle forze che in questo scorcio di secolo hanno tratto maggior beneficio da disparità territoriali, arretratezze della pubblica amministrazione e situazioni di privilegio indebito.
Eppure gli strumenti di pianificazione e di sostegno finanziario appaiono essere adeguatamente posti sul tavolo. Dei 191,5 miliardi di euro ottenuti dal nostro Paese oltre un terzo (86,9 mld/€) sono sovvenzioni (al pari del Piano Marshall), mentre i due terzi (122,6 mld/€) sono prestiti, i cui oneri finanziari saranno sostenibili – soprattutto dalle future generazioni – solo a fronte di una considerevole ripresa dello sviluppo dell’economia.
1. Digitalizzazione e innovazione
Tutte le componenti della prima missione del piano, che impegna il 40% delle risorse, sono fortemente correlate alla riconversione del comparto delle costruzioni. L’endemica arretratezza della nostra pubblica amministrazione è notoriamente causa delle principali disfunzioni nei processi di trasformazione del territorio: dal proficuo impiego degli investimenti e dal successo delle riforme strutturali delle amministrazioni centrali e degli enti locali dipende in massima parte il successo dell’intero programma. I processi di riforma, di accorpamento e di innovazione delle stazioni appaltanti, invano ipotizzati nel codice dei contratti, non possono più tardare: il perdurare di un quadro di incertezze normative e un panel di interlocutori pubblici non in grado di guidare, controllare e sostenere gli interventi – pure puntuali e frammentari – di riqualificazione del territorio, sono fonte primaria di mancata produttività per le imprese di costruzioni e per i fornitori di beni e servizi, che non possono pianificare il loro sviluppo digitale se non hanno interlocutori ugualmente strutturati e adeguatamente organizzati. Siamo alle soglie di un grande programma di reclutamento di nuove risorse che consentirà di ringiovanire l’età media delle amministrazioni, la dotazione di tecnologie, infrastrutture, interoperabilità, ma soprattutto di acquisire competenze e professionalità nuove.
Alla arretratezza della pubblica amministrazione corrisponde, specularmente, una inadeguatezza del sistema produttivo, soprattutto quello delle imprese delle costruzioni, che oltre a soffrire delle caratteristiche di sotto dimensionamento e di sotto finanziarizzazione, hanno spesso navigato preferendo il lucro speculativo immobiliare che la competitività delle proprie risorse produttive, e hanno sovente operato per massimizzare gli utili derivanti da episodiche o strutturali rendite di posizione. Il piano propone una visione tutta in chiave tecnologica, infrastrutturale e finanziaria per l’innovazione e la competitività del sistema. Per le piccole e medie aziende di produzione industriale e per le imprese di costruzioni – a minore valore aggiunto – si tratta di approfittare degli incentivi fiscali per incrementare il proprio assetto tecnologico e acquisire risorse professionali di nuova generazione, ma soprattutto offre l’opportunità di modernizzare i propri strumenti patrimoniali e finanziari, e incrementare il proprio livello di internazionalizzazione.
Le strumentazioni del credito di imposta per le imprese che innovano e investono in sviluppo e trasferimento tecnologico hanno in passato fallito il loro obiettivo per la scarsa competitività che tali investimenti offrivano, al confronto con altre azioni orientate ad aggredire mercati protetti. L’occasione attuale, se vista nell’ambito di un globale processo di trasformazione dei mercati, potrebbe avere maggiore presa sulle generazioni di imprenditori upskilled, consapevoli della fine di un’epoca opaca.
La terza componente, volta allo sviluppo delle filiere della cultura e del turismo, interroga la volontà effettiva del nostro Paese di “sfruttare” i propri immensi giacimenti di risorse. Il termine “valorizzare” è stato fin qui troppo usato con l’intento di protezione fine a se stessa, sovente slegato dalle finalità fruitive che pure sono alla base del concetto stesso di paesaggio e che sole possono generare risorse adeguate alla conservazione e alla protezione dei beni nella disponibilità del nostro Paese. Le misure contenute nel piano, il 3,5% del totale, hanno però una dimensione esigua rispetto alla mole di investimenti che sarebbero necessari per una svolta produttiva di questi comparti e sono volte in massima parte alla digitalizzazione dei contenitori turistici e culturali.
2. Rivoluzione verde e transizione ecologica
Il secondo asse strategico del piano assorbe il 60% di tutte le risorse messe in campo e rappresenta la vera svolta nella politica di riforme e investimenti su cui il Paese sta puntando. Il settore produttivo delle costruzioni è chiamato ad operare una riconversione epocale per stare al passo con le sfide che vi sono contenute. La portata della via – già intrapresa – verso l’efficienza energetica e la riqualificazione degli edifici, viene qui ampliata con un nuovo programma di tutela del territorio e delle risorse idriche che sole possono provare a fronteggiare il cambiamento climatico in corso. La filiera delle costruzioni però parte da alcuni punti di forza che ne potrebbero effettivamente fare intravedere le possibilità di successo. Essa è innanzitutto una filiera di economia intrinsecamente circolare nelle sue potenzialità: le risorse materiali che vengono impiegate potrebbero essere in gran parte materie prime seconde, derivate da processi di riciclo e riuso. Già oggi il “riciclo dei materiali” da demolizione costituisce una peculiare filiera produttiva che ha assunto dimensioni ragguardevoli sul complesso del settore edilizio: il nostro Paese è ai primi posti in Europa per la dimensione dei processi di riciclo e il settore produttivo coinvolto è caratterizzato dalla dotazione di sistemi tecnologici avanzati. In questa direzione le prospettive di sviluppo sono promettenti, sia per gli operatori economici interessati, sia per la collettività che ne beneficia[6]. In secondo luogo, il settore della produzione industriale nell’edilizia, in questi anni di stagnazione, ha investito molto nella innovazione tecnologica dei prodotti da costruzione e dei relativi processi di produzione; una legislazione più incisiva sul fronte della domanda e una pubblica amministrazione più preparata possono supportare efficacemente questi processi di innovazione, strategici sulla via della transizione ecologica.
Il valore inestimabile del nostro patrimonio storico può essere non solo salvaguardato, ma ulteriormente valorizzato, anche come risorsa economica, non è più tempo però di mantenere una visione della sua conservazione come valore assoluto e intangibile: fotovoltaico sui tetti, pale eoliche nelle aree ventose marine e terrestri, impianti di produzione energetica da scarti di lavorazioni dovranno divenire brani comuni del paesaggio, come lo sono diventate le automobili e le reti ferrate, nel passaggio da una società rurale ad una industriale.

Anche gli asset di approvvigionamento energetico vedono il nostro Paese superare la media europea: dipendiamo dal petrolio per un terzo del fabbisogno, mentre il 40% viene fornito da gas naturale e il 20% da fonti rinnovabili. Una inversione delle proporzioni attuali produrrà per noi vantaggi competitivi enormi, poiché siamo grandi importatori di risorse tradizionali, mentre abbiamo enormi potenzialità nello sfruttamento delle risorse rinnovabili: sole, vento e acqua.
Anche solo dalla disamina delle prime misure contenute nel piano appare con tutta evidenza, sia la portata degli obiettivi e delle risorse messe a disposizione, sia le potenzialità che essi rappresentano per la riconversione del nostro settore produttivo, e parallelamente per la tutela del nostro patrimonio ambientale. Resta da vedere quale ruolo sarà in grado di giocare il settore della ricerca e dello sviluppo in questa partita, dopo troppi anni in cui ci si è soffermati a stigmatizzare come il settore produttivo dovesse investire di più in ricerca e sperimentazione è venuto il momento di affermare che il settore della ricerca e della formazione universitaria, in particolare nelle discipline dell’architettura e dell’ingegneria, deve compiere un passo deciso nella direzione della produzione, per garantirgli nuove risorse intellettuali e nuove generazioni di imprenditori.
[1] Cfr: A European Green Deal | European Commission (europa.eu)
[2] Cfr: PNRR_0.pdf (governo.it)
[3] Cfr: Fit for 55 | Legislative train schedule | European Parliament (europa.eu)
[4] Cfr: NextGenerationEU (europa.eu)
[5] Si chiamava “European Recovery Program”, era dotato di uno stanziamento di circa 13 miliardi di dollari e il principale beneficiario fu il Regno Unito che ricevette aiuti per la metà di quanto messo a disposizione, mentre all’Italia andò solo il 10% del programma statunitense. Una ulteriore dimostrazione della misera posizione di quel Paese che ora dovrà vedersela con una politica americana non più così benevolmente schierata e con una posizione dei Paesi europei che sperabilmente dovrà trovare rinnovate ragioni del proprio essere comunità.
[6] Il Rapporto Rifiuti Speciali dell’Ispra del 2020 indica ancora una crescita annua della produzione dei rifiuti speciali in Italia del 3,3%, arrivando a superare 143 milioni di tonnellate; di questi i rifiuti non pericolosi, e quindi passibili di riciclo, rappresentano la gran parte dei rifiuti prodotti (93%). In questo ambito il settore delle costruzioni e demolizioni di cantiere rappresenta quasi la metà del volume prodotto: con oltre 60 milioni di tonnellate copre il 42% del totale, seguito dalle attività specifiche di trattamento dei rifiuti e di risanamento con oltre 38 milioni di tonnellate (27% del totale) e dall’insieme delle attività manifatturiere la cui produzione, 28,6 milioni di tonnellate, sfiora il 20%; in questo percentile si collocano anche le industrie di prodotti da costruzione. Rispetto al totale dei rifiuti prodotti è un dato significativo che già oltre il 67% sia recuperato e reimmesso nel ciclo produttivo come materie prime seconde, mentre il 19% di questi (31 milioni di tonnellate) vengono definitivamente smaltiti.