La fine del processo evolutivo dell’architettura

UCTAT Newsletter n.41 – gennaio 2022

di Matteo Gambaro

I primi due decenni degli anni Duemila sono stati caratterizzati da un progressivo smantellamento dei capisaldi culturali su cui si è retta la società italiana nata dalla ricostruzione postbellica. Abbiamo assistito, e partecipato, alla messa in discussione sistematica di regole condivise, di attribuzioni e divisioni di responsabilità che ci avevano accompagnato per cinquanta anni, alla ricerca di un cambiamento e di una modernizzazione più astratta che reale.

Anche l’architettura, disciplina e pratica operativa fondamentale per la costruzione e ricostruzione delle città, ha intrapreso lo stesso percorso irreversibile, e forse inevitabile. Come mi ha ripetuto più volte Vittorio Gregotti, con consapevole rassegnazione ed un velo di tristezza, sta terminando un’epoca in cui si credeva che l’architettura potesse trasformare artisticamente il territorio e le città. Si pensava potesse avere una funzione sociale, culturale e politica, e sicuramente l’ha avuta nel dopoguerra, ma non più oggi. La scomparsa, negli ultimi due anni, di figure di straordinario rilievo culturale come Tomas Maldonado, Aurelio Galfetti, Luigi Snozzi, Oriol Bhoigas, Ricardo Bofill, Enzo Mari, Richard Rogers e lo stesso Gregotti, che hanno inciso profondamente con i lori studi e opere realizzate sulla cultura architettonica e del design europeo, ha probabilmente decretato, con la fine di una generazionale, anche l’esaurimento dell’esperienza della razionalità e del pragmatismo applicato alla pratica architettonica. Passaggi storici, posizionamenti culturali, esperienze che rischiano di essere dimenticati o peggio semplificati e omologati dalla cultura architettonica contemporanea sempre più sbilanciata verso la ricerca dello stupore e della novità, al servizio della speculazione finanziaria internazionale, in particolare nelle grandi città, e sempre più egemone delle tecnologie impiantistiche.

La rigenerazione urbana è un caso paradigmatico di questo modo di operare. I più importanti interventi degli ultimi anni, in particolare nella città di Milano che più di altre realtà sta vivendo questo fenomeno, sono impostati su logiche meramente espressive e formali, insensibili alle caratteristiche del contesto ambientale, interpretato nella sua accezione più ampia, quindi non solo fisico ma anche culturale e produttivo. Non sono espressione di un disegno urbano e di una volontà di integrazione con le preesistenze, quanto piuttosto di un desiderio di distacco e di rottura dall’esistente; di una estetizzazione diffusa volutamente inconfrontabile con la storia e la cultura architettonica dei luoghi.  

Un approccio ulteriormente enfatizzato dal nuovo linguaggio internazionale dell’energia e dall’irrompere delle tecnologie impiantistiche, importantissime e sempre più ineludibili, che determinano forme inedite e nuovi paesaggi urbani. Parafrasando il titolo di un famoso libro di Francis Fukuiama: La fine della storia, probabilmente siamo al termine del processo evolutivo dell’architettura per quanto ha significato nel XX secolo. Siamo agli albori di una svolta epocale, da alcuni ritenuta regressiva e volgare, da altri invece apprezzata per l’afflato internazionale e il rimando a immagini e stili di vita riconoscibili e replicabili in ogni contesto. La qualità degli interventi di rigenerazione urbana, gli unici per dimensione e ubicazione in grado di esprimere una idea di città, non è più misurata per la capacità del sistema insediativo di essere un nuovo tassello del tessuto consolidato, quanto per l’offerta di prestazioni e servizi sempre più ricercati. D’altronde anche il recente sistema di incentivi messo a disposizione dal legislatore – condivisibile per il portato economico e l’indotto lavorativo che ha creato, nonché per l’ammodernamento del patrimonio edilizio che sta determinando – si pone soprattutto obiettivi di adeguamento impiantistico e di prestazioni energetiche espressi con leggi e regolamenti che non alludono neanche lontanamente ad una idea di architettura e di città.

Evidentemente queste considerazioni interessano solo alcune nicchie di studiosi, di professionisti particolarmente attenti e ancora interessati all’architettura, pochi cittadini sensibili alle sorti delle città in cui vivono e qualche raro politico illuminato. Anche in ambito universitario la situazione è critica e lo sbilanciamento è forte verso approcci analitici (o pseudo analitici) settoriali poco adatti all’architettura che, per sua natura, è sintesi complessa di saperi tecnici e umanistici.

Nello scrivere queste brevi considerazioni mi viene alla mente un testo di Michel Serres del 2013 intitolato: Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere. Il libro pone l’attenzione sulla modificazione delle facoltà cognitive introdotte dalle tecnologie digitali. Sulla forza che hanno le nuove generazioni di rivoluzionare il sapere con un’intelligenza inventiva, scardinando regole e prassi consolidate da molto tempo e ritenute immodificabili. Paradigmatico un passaggio del libro nel quale Serres, con divertita consapevolezza e senso della realtà, racconta la sua esperienza di insegnamento nell’università di Stanford, dalle aule gremite per assistere alle sue lezioni negli anni Settanta a quelle quasi vuote degli anni Duemila, a dimostrazione che il sapere si è spostato in altri luoghi accessibile con modalità differenti.

Probabilmente questo fenomeno sta investendo anche l’architettura e l’interrogativo che mi pongo è se lo smarrimento che provo di fronte a quella che oramai è diventata la prassi operativa non dipenda dal mio eccessivo, forse naturale per la mia formazione, radicamento ad un approccio culturale che appare sempre meno adeguato alla società contemporanea in continua ed inaspettata evoluzione. All’inizio degli anni Novanta Rem Koolhaas teorizzò che il cambiamento si stava staccando dall’idea di miglioramento, minando la fede nel progresso della cultura architettonica. Affermazioni che non mi hanno mai convinto ma sono state straordinariamente premonitrici.

© G. Castaldo.
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