La percezione dell’immagine urbana

UCTAT Newsletter n.32 – marzo 2021

di Paolo Aina

Nell’affrontare l’argomento chiediamoci di che cosa potremmo parlare.
Degli edifici monumentali? Delle case? Degli spazi pubblici costruiti?  Degli spazi pubblici “naturali”? Delle attrezzature?

La città, le città sono tutte queste cose mescolate e accostate guancia a guancia. Noi camminiamo e le vediamo in sequenza lungo le vie, affacciate sulle piazze e verso l’esterno a contatto con lo spazio libero.

Ma abitiamo qui o veniamo in visita?

Un conto sono gli abitanti, altra cosa sono i turisti; ciò che maggiormente distingue gli uni dagli altri è la disponibilità del proprio tempo, mentre i primi, in genere, passano i secondi si fermano e si procurano delle immagini di ciò che vedono.
Sarebbe interessante guardare queste immagini per vedere quale sia il concetto di bellezza che illustrano.

Un’idea ce la possono dare le cartoline, ora non si spediscono quasi più ma ne esistono ancora: ce ne sono di Porto Marghera? Ce ne sono di Via Fabio Filzi? Ce ne sono del Corviale?

Mi pare di no, le cartoline si riferiscono agli edifici e agli spazi della città storica e non tutta la città del passato, quasi sempre sono immagini del centro, vale a dire la città medioevale o ancora più antica.

Potremmo quindi cominciare a chiederci perché la città moderna non attira nessuna attenzione diffusa, resta notevole solo per un pubblico di “nicchia” gli architetti, i fotografi che illustrano le architetture e a volte diventano set per film di fantascienza, gli alieni e i mostri preferiscono le città piene di grattacieli solitari, poi però tentano sempre di raderle al suolo.

Da noi, in Italia, a Milano o in Europa sbarcano raramente forse sono intimiditi dalla stratificazione della vita che hanno le nostre città, gli alieni considerano che la compattezza degli edifici, i portici, le fontane, i viali alberati, le attrezzature costruite per favorire il contatto e il senso di comunità tra gli abitanti e una fruizione dello spazio meno tristemente funzionale siano un  terreno difficile per atterraggi e campagne di conquista, oppure le giudicano una sorta di museo dove entrare con soggezione o meglio non entrare affatto. 

Quindi quello che noi crediamo sia la bellezza delle nostre città agli occhi di un alieno non conta, di conseguenza dobbiamo decidere se costruire delle città che non saranno visitate dagli alieni e quindi daranno rifugio agli scampati all’invasione o proseguire nel costruire edifici che diventeranno oggetto della furia degli extraterrestri.

Spesso noi architetti siamo schiavi dell’architettura che non è più il modo di costruire edifici per gli abitantii ma è diventata un gusto per essere alla moda nella costruzione e di un’urbanistica vessatoria in cui l’ossessione della regola e delle quantità estingue, per i comuni mortali, la possibilità di essere liberi.

Tutto questo sarebbe encomiabile se, come nel secolo scorso, fosse accompagnato da un afflato di speranza per una vita migliore, una vita che pur nelle rigidità progettuali dell’architettura e dell’urbanistica faceva balenare “le magnifiche sorti e progressive” e in nome di quelle si era disposti ad accettare l’inevitabile autoritarismo di quei progetti per lo spazio della nostra vita.

Siamo ad un bivio: città che verranno distrutte dagli alieni o città dove il benessere e la libertà dei cittadini, l’attenzione alle qualità ambientali, alla terra e alla vita in genere sono sono la regola da seguire?

Credo sia inutile che io manifesti le mie preferenze, penso che le forme non debbano essere aggressive, debbano lasciarsi guardare o ignorare a seconda dello stato d’animo dello spettatore, del passante, una città silenziosa che permetta di pensar-ci senza ridurci a turisti stupefatti ad ogni angolo.

In fin dei conti anche Le Corbusier aveva in studio un muro di vecchi mattoni.

Le Corbusier nel suo studio.
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