UCTAT Newsletter n.40 – dicembre 2021
di Marino Ferrari
Vi sono aspetti in questa ultima parte di anno che hanno rimarcato molteplici contraddizioni urbane, dalla organizzazione strutturale degli specifici territori, alle svolte politico-amministrative, alle implicazioni sia materiali che sociali della pandemia. Certamente questo ultimo aspetto potrebbe rappresentare in un quadro pessimistico, il futuro delle città, le quali, messe in crisi da tutti questi aspetti e contraddizioni, “vivono”, la complessità che le caratterizza e la incapacità di risolvere problemi fondamentali. La contraddizione rimane, nel quadro teorico di riferimento, il più significativo ambito di attenzione e di “speculazione”. Partendo dall’assunto che definisce la città luogo di produzione e gestione delle merci al punto di essere essa stessa “merce” e che il territorio a cui corrisponde altro non è che la materializzazione del mercato, è corretto porsi il quesito di come superare e risolvere queste contraddizioni. Certamente, come si è potuto significare recentemente, occorre andare alla “origine” dei meccanismi che “fanno funzionare questa macchina complessa”, per molti aspetti anche affascinante se non fosse per il coinvolgimento diretto di tutti gli attori.
L’ambito privilegiato, si è avuto modo di annotare, è quello che occupa il territorio urbano sotto il profilo fondamentalmente materiale e strutturale, pur esprimendosi in termini squisitamente sovrastrutturali. A rappresentare questo aspetto sono proprio le discipline che dovrebbero invece controllarlo. Da alcune parti si dice che l’urbanistica e l’architettura sono “morte”, vale a dire hanno perso per strada quella “forma di sacralità” che le distingueva dalle altre discipline in grado di modificare la realtà territoriale.[1] Per cui l’architettura possiamo scriverla in minuscolo e l’urbanistica domandarci che cosa sia, oggi. È sufficiente partecipare agli appositi convegni per comprendere che l’importanza primaria, oggi, è corrispondere alla “sacralità” di un Piano nazionale mirato alla resilienza, oltre ad altre simpatiche nozioni politico amministrative. Migrazione di termini supponendo che essi di per sé possano determinare l’operosità organizzativa, la progettualità, il risultato adatto alla mutazione o addirittura affinché esso medesimo sia mutazione. Per le città abbiamo la rigenerazione che, in assenza di una de-finizione, richiama a sé tutte le formule, le attitudini e gli strumenti tecnici utilizzati sino ad oggi; tutto ciò, in sostanza, che ha portato allo status quo. In un quadro teorico serio e almeno partecipato seriamente e con grande onestà intellettuale, occorre rifiutare qualsiasi apprendimento che non comporti una chiara definizione ed una chiara progettualità. Architettura e urbanistica sono “morte”: sotto un certo profilo potremmo dire finalmente, ma ciò comporterebbe la ribellione di tutti coloro che hanno “creduto” nell’una e nell’altra: e come si suole dire, a ciascuno le sue piccole soddisfazioni spirituali e materiali.
Ma il quadro teorico ci dice anche, ed in modo preoccupante, che alcuni significativi esempi in grado di rimarcare le contraddizioni, li abbiamo partendo dalla città di Venezia. La quale sia fisicamente che socialmente sta “scomparendo” portandosi appresso anche quell’altra contraddizione dovuta alla menzione di Patrimonio dell’Umanità: l’eccesso di frequentazione massiva, l’antropizzazione del suolo, l’economia turistica produttrice di museificazione e mercificazione, la ghettizzazione dei pochi cittadini rimasti. Senza esagerare, ovviamente, ma se partissimo dai Gran Tour, sia pure di classe, e arrivassimo alle grandi navi dentro a S. Marco, diremmo che gli aspetti culturali etc. si sono persi per strada da tempo e la “città di tutti”, ma veramente di tutti, “per il profitto di pochi” lascia che si trasformino gli operai in camerieri. (P. Somma, Privati di Venezia, Castelvecchi). Certamente non sono le straordinarie opere di “architettura moderna” come un discutibile ponte, a dimostrare la sacralità e dare conforto al destino vero della città.
Si può “morire” in un mercato facendo morire il mercato stesso? Una bella contraddizione che induce ad affrontare sia pure in termini di approccio, la crisi che è alla base e alla origine del sistema delle contraddizioni. Un sistema in crisi per la sua debolezza strutturale, per l’ininterrotto assoggettamento dell’uomo alla tecnologia delle macchine, il suo dislocamento tecnologico come forza lavoro. Vero è che l’uomo consumatore si è talmente assuefatto a qualsiasi lavoro pur di alienarsi totalmente nel divertimento e nella esaltazione dei falsi bisogni. Vero è anche, che Architettura e Urbanistica pensano a lui dedicandogli sprazzi di borghesia illuminata, quella che ancora rimane sopravvivendo alla apatia propria dell’implosione, in abitazioni e servizi che parrebbero gli unici fuori dalle omologazioni formali, soluzioni che parrebbero spingersi verso forme innovative solamente confortate da iniezioni di tecnologia salvifica e, del resto necessaria perché voluta. Imitazioni anche a caro prezzo, ove il prezzo non è solo l’euro al metro quadrato, ma l’intera implicazione territoriale, quella che viene chiamata sociale e che raramente si riesce a definire. Come la resilienza, che, estrapolata dalla tecnologia dei materiali con arguzia, finisce per affermare il suo valore di staticità, di non reattività: non della materia, ma dell’individuo. Ma il capitalismo produttore di merci e di contraddizioni ha superato da tempo le barriere geopolitiche, e non osserva queste contraddizioni anzi, come abitudine, tende a lenirle ed a ripararle come tante ferite; e questo, a quanto pare, sembra costituire il suo attuale limite, la sua fragilità, di organismo in perenne cura da ferimenti. Un bell’impegno che può condurre all’auto distruzione. Il mercato, in effetti è la “nostra” guida, è la espressione vivente della deificazione produttiva senza limiti, limiti temporali, ambientali ed umani.
La città, dunque, il territorio che la ingloba, quali conseguenze sta maturano o che addirittura sono in atto? Se è tutto assiomatico si tratta forse di “agire le contraddizioni” per determinare il meccanismo che ha intrappolato ogni via di uscita, impraticabili da quel che è rimasto delle discipline tecniche sino a qualche tempo fa usate a dismisura?
Potrebbe essere, per contrappunto, che all’abbandono di Venezia corrisponda l’affollamento delle città per cui occorre trovare nuovi spazi e attenersi anche alle modalità riempitive anche se ingannevoli, del cerimoniale verde, detto meglio green. Anche qui la moda indica alcune soluzioni verdi, alcune erbe ed alcune piante ma senza un approccio “sistemico” in cui il “verde” non è una decorazione pubblicitaria, ma una fondamentale ed essenziale componente dello spazio abitato. E poca importanza potrebbero avere anche i servizi se questi non corrispondono alla scelta ambientale e ricompongono, nella resilienza, la gerarchia dei valori e dei comandi affinché la riproduzione delle merci coincida viepiù con la gerarchia dei poteri. Dunque, la complessità delle contraddizioni si mostra, è palpabile, è coinvolgente quotidianamente: si tratta di affrontarla. Se è vero, come appare inequivocabilmente vero, che il sistema sta vivendo una particolare crisi che ci induce a pensare ad una imminente fine, vien spontaneo pensare che la relazione stretta con l’urbano conduca la città a soccombere drasticamente, ad implodere. Certo, non può essere una implosione catastrofica ricca di macerie o altro, ma senza enfasi una implosione dei così detti valori, delle sequenze formali secondo le quali produrre e consumare significa differire le gerarchie dei rapporti sociali senza capovolgerne la sequenza. In tutto questo parlare ancora di architettura e di urbanistica può diventare pericoloso, ideologicamente controproducente. Qualcuno afferma che è possibile cambiare “questo sistema” (M. Mazzucato, missione economia, ed. Laterza), opinione difficile da condividere, altri analizzano più pacatamente le possibili fasi di mutazione, nella caduta, del sistema. Considerandole è facile traslarle nella città, trascinandoci in un vortice in grado di espandere il citato quadro culturale di riferimento, proprio dentro quelle contraddizioni considerate ad oggi salvifiche. Il mercato, nella sua evidente materialità ha un limite, la discrepanza tra tecnologie applicate e la sostituzione del lavoro umano, la componente finanziaria irrompente che formalizza il territorio sottraendo energie strutturali, il rapporto tra competenze dello stato e le proprietà privare, il processo culturale disattivato o comunque ridotto ad una manifestazione di compiacenti aspettative.




[1] Possiamo discutere se si sono perse per strada oppure se sono state eliminate sulla strada dagli stessi epigoni.