UCTAT Newsletter n.35 – giugno 2021
di Paolo Aina
Devo quest’affermazione a F. Schiaffonati che me l’ha lanciata mentre parlavamo al telefono, questa definizione ha il pregio di essere, come dire, non disciplinarmente dogmatica e di apparentarsi ad un’altra che mi è molto cara di K. Löwith: “Ma ciò che è sempre tale, e non può essere altrimenti, è detto anche necessario”. (1)
Ma in che modo possiamo considerare che l’architettura sia sempre tale e quindi necessaria?
Non certo per via estetica, né per l’uso dei materiali e neppure per la configurazione dello spazio a cui dà luogo; direi che il necessario dell’architettura deriva dal suo tentativo di risolvere il problema di abitare la Terra.
Abitare: ci addentriamo in un altro campo accidentato, che significa?
Direi che in primo luogo è un circoscrivere uno spazio, è delimitare nell’estensione una sua parte e in questo senso renderla privata; in questo delimitare è compresa l’azione del riparare: riparare dai pericoli, riparare dalle intemperie, dal freddo, riparare e custodire oggetti utili e cari.
Direi che queste sono le caratteristiche principali dell’abitare ma con ciò non ne caratterizzano ancora interamente la funzione; in effetti abitare significa anche mettere al riparo l’intimità delle convivenze e le storie che le caratterizzano.
Questo abitare genera la casa, dapprima – in latino – capanna, casupola costruzione senza pretese e solitaria in uno spazio i cui limiti sono dati da cose che non sono opera degli uomini: cielo, alberi, montagne, corsi e distese d’acqua.
Questo abitare solitario, questo stare spalla a spalla con i pochi che ci sopportano e che sopportiamo immagino abbia generato paure e angoscia e così anche la casa cerca un’altra casa e si avvicina mantenendo la sua singolarità, molte case vicine si confortano l’una con l’altra e formano i villaggi e poi le città, dapprima di piccola estensione per poi espandersi a seconda delle possibilità e della intraprendenza dei loro abitanti.
Ed ora eccoci qui stipati ed ammassati in un insediamento, la foresta dove la prima capanna era sorta ci ha raggiunti: la città si è a sua volta trasformata in una giungla artificiale dove il “selvaggio” non è più l’evento naturale ma la quantità umana presente, l’accumulo spesso incomprensibile di tutte la nostre azioni e di tutto l’accatastamento di leggi e regole che il sociale ha generato.
È questo il campo dove l’architettura si dimostra “arte necessaria”, un arte non solo come approccio estetico ma anche come capacità del fare: un fare a “regola d’arte”.
Il “fare a regola d’arte” si relaziona con la tradizione e con i tentativi, con gli sbagli e i successi per la risoluzione dei problemi posti dall’organizzazione degli insediamenti e dalla costruzione degli edifici che l’esperienza collettiva ci ha tramandato.
L’esperienza collettiva è l’accumulo di saperi pratici che sono strettamente legati al luogo, all’elaborazione culturale che il luogo ha ispirato e ai materiali facilmente reperibili lì dove si è.
Siamo sempre da qualche parte con il corpo, spesso però con la mente ci allontaniamo verso altri luoghi, costruiamo astrattamente una “Gerusalemme celeste” che scende con il dio del momento: la tecnologia, la tecnica, i materiali innovativi, la serialità, ecc.
Dietro questa hybris spariscono le condizioni caratteristiche del luogo, si eclissa il piacere dell’essere lì e non in un altro posto, anzi ci pervade la noia che si sia sempre nello stesso posto: l’ideazione degli edifici e la loro costruzione sono il frutto di un linguaggio che per quanto raffinato non arriva mai “al semplice della semplice semplicità del mondeggiare”. (2)
La “semplicità” è la semplicità dell’esistente sia nei termini della sua naturalità (terra, aria, acqua) che nei termini della sua artificialità (edifici, spazi, storie).
In realtà l’architettura si pone, nei casi migliori, al limite del “mondeggiare” riassume cioè l’atteggiamento di chi sa del posto, delle cose di quel luogo e delle speranze e i bisogni che animano chi è già lì.
La nuova architettura non ha bisogno, a mio parere, di grandissime performance; credo debba puntare sulla costruzione di spazi empatici e accoglienti.
Le caratteristiche di questi spazi si riassumono in poche righe, sono quelli che coinvolgono il corpo facendoci sentire a nostro agio come nelle chiacchiere tra Fedro e Socrate:
Fedro Vedi quel platano altissimo?
Socrate Sì, ebbene?
Fedro Là ci sono ombra, una lieve brezza ed erba per sederci o, se vogliamo, per sdraiarci
Socrate | Per Era, davvero un bel luogo per riposarsi; questo platano infatti è molto frondoso e alto. Bellissimo, poi per l’altezza e l’ombrosità è l’agnocasto che essendo al culmine della fioritura rende il luogo più profumato che mai. Inoltre, sotto il platano scorre una gradevolissima fonte di acqua molto fresca, come si sente se si prova a toccarla con il piede: e a giudicare dalle figurine femminili sembra che sia un luogo sacro a certe Ninfee ad Acheloo. Poi, se ti fa piacere, senti com’è amabile e dolce il venticello del luogo: con il suo soffio estivo e melodioso fa eco al coro delle cicale. Ma la cosa più graziosa di tutte è l’erba che con il suo lieve pendio sembra fatta apposta per sdraiarvisi sopra e appoggiarvi comodamente la testa. (3) |
In questo dialogo del 370 a.c. sono esplicitate le cose che ancor oggi permettono al nostro corpo di sentirsi a proprio agio e di conseguenza alla mente di poter fantasticare e dare spazio alla propria introspezione conoscitiva e creativa.
Il dialogo mette in luce altre cose, la prima è una sorta di calma temporale pare non ci sia nessuna fretta, nessuno dei due ha l’impressione di perdere tempo, si potrebbero addormentare appoggiando comodamente la testa senza alcun rimorso; la seconda è che il luogo è favorevole all’interazione tra i due amici, Fedro e Socrate si preparano a chiacchierare confortati da uno spazio che non li assilla.
In città oggi è vietato sdraiarsi sui prati, è vietato giocare al pallone, è vietato legare le biciclette alle recinzioni, è vietato…, è vietato… è solo permesso transitare di corsa da una meta all’altra nel più breve tempo possibile per non perdere tempo, per risparmiare un tempo che poi non si sa come spendere se non ricominciando a correre nel deserto che sono diventate le nostre città: caldissime, deserte anche se affollate, con pochissima acqua gratuita mancano le oasi intese come uno spazio in cui poter sostare senza essere assillati dal consumare qualcosa, un posto con uno spazio che possa indurre ad una blanda socializzazione, alle chiacchiere senza impegno un luogo dove sostare e dove non essere obbligati a fare nulla neppure a stupirsi per le arditezze architettoniche e come diceva in un’intervista M. Duchamp:
“Che cosa fa durante tutto il giorno? Niente . Per il resto sono felicissimo”. (4)
Ecco , la felicità ha bisogno di tempi lunghi, di sospensione delle attività frenetiche, di riposo dal caos dei pensieri: di spazi adatti.
La configurazione spaziale della città moderna non pare in grado di soddisfare questi requisiti: riproduce la gerarchia degli spazi della città antica dove le vie e le piazze rispondevano ad una gerarchia sociale precisa e riconosciuta, le solite cose: il castello, il palazzo, la chiesa, la cattedrale.
La gerarchia era riconosciuta e accettata collettivamente, di conseguenza le costruzioni monumentali giustificavano la forma spaziale della città.
Ora non è più così, il crescere dell’istruzione e le istanze della democrazia generano, a mio parere, sulla configurazione dello spazio cittadino due conseguenze:
- II nuovi spazi sono troppo votati alla frenesia del fast e del quick come diciamo al posto di veloce per risparmiare tempo, per sembrare moderni perché crediamo che la modernità venga dall’America anche nell’architettura e sotto sotto sentiamo le note di una vecchia canzone: “Tu vuò fà l’americano”. (5)
- I vecchi spazi incorporano la tranquillità che deriva dallo spegnersi delle istanze che li avevano generati: sosto a Lodi nella piazza del Duomo e guardo con affetto i leoni che sostengono le colonne del timpano; mi ricordo di quando da bambino mio padre, su altri leoni, mi metteva a cavalcioni.
Parti di un arredo urbano che non usa più ma che aveva il pregio di farci sognare, sono ormai occultati, anche a Venezia, i luoghi da cui Corto Maltese passava in altre storie:
“Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti: uno in Calle dell’Amor degli Amici; un secondo vicino al ponte delle Meravege; un terzo in Calle dei Marrani a San Geremia in Ghetto.
Quando i veneziani sono stanchi delle autorità costituite, si recano in questi tre luoghi segreti e, aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie” . (6)

- K. Löwith “La questione heideggeriana dell’essere: la natura dell’uomo e il mondo della natura” in AA.VV. “Su Heidegger Cinque voci ebraiche” Donzelli Editore 1998
- M. Heidegger “La cosa” in “Saggi e discorsi” Mursia 1976
- Plastone “Fedro” Oscar Mondadori 2005
- M. Duchamp “Intervista” 2009
- N. Salerno R Carosone “Tu vuò fa l’americano” 1956
- H. Pratt “Corte Sconta detta Arcana” Milano Libri Edizioni 1977