Le case dell’uomo

UCTAT Newsletter n.40 – dicembre 2021

di Paolo Aina

Nel Vangelo di Luca (2, 4-6) si narra che Gesù, appena nato, venne deposto in una mangiatoia.

Non si parla di nessun edificio, ma possiamo ragionevolmente pensare alla costruzione che lo ospitava come una stalla dove per consuetudine alloggiano anche un bue e un asinello a formare il primo impianto di riscaldamento senza combustione.

Nel presepe che, allestivamo in famiglia molti anni fa, e qualche volta più recentemente quando  mia figlia era piccola, la stalla era una sgangherata capanna con il tetto a due falde di paglia intrecciata.

Il presepe poi si articolava con pecore, pastori, cammelli, figure che seguendo la cometa vengono da lontano, una banda portoghese, una ballerina spagnola, dei pope greci e altri personaggi che abbiamo aggiunto nel corso del tempo e dei viaggi; era la mise en scène di un tempo lontano ma ancora riconoscibile anche per chi non ha mai visto le pecore vive.

Grazie a tutta questa partecipazione la stalla/capanna assume un’importanza a cui il suo aspetto fisico non rimanda: è la nascita, la “presenza umana”, il bue, e l’asinello, la vita che conferiscono al modello di una forma edificata senza pretese qualcosa che la converte nell’immagine di una speranza.

Una sagoma semplice, che genera uno spazio elementare dove gli spioventi della copertura sono le braccia che confortano l’ambiente sottostante.

Nei disegni infantili tutte le case hanno il tetto a falde, anche quelle dei bambini di città che hanno negli occhi i tetti piatti e i grattacieli.

Guardo una serie di case disegnate da bambini e mi accorgo che hanno la medesima monumentalità mantenendo la stessa forma, la stessa che l’Abate Laugier mise ad illustrazione del suo trattato, la stessa che, agli albori del moderno, l’arch. H. Tessenow ha usato per molte sue costruzioni difendendone la fattura e la fattibilità.

La sagoma del tetto a falde nasce dall’affinamento della sapienza collettiva che affronta le tematiche dell’abitare, alle nostre latitudini, e nonostante il miglioramento dei materiali, delle strutture e della tecnica edilizia resta nel nostro – forse si può dire – subconscio.

Così che mentre di fronte alle opere nel canone dell’architettura moderna ci stupiamo e a volte indigniamo per le loro forme e cerchiamo di giustificarle con ragionamenti ed elucubrazioni sempre più raffinati, un tetto a falde si giustifica da sé.

Assume la caratteristica del necessario e dell’indiscutibile.

Queste caratteristiche lo pongono al di fuori della storia, in un paesaggio mitico. Sicuramente la prima casa di Adamo nell’Eden – per noi occidentali – aveva un tetto a falde, come l’epifania che la capanna caraibica ebbe per G. Semper all’esposizione universale del 1851.

Il tetto della capanna del presepe ha poi un’altra caratteristica: lo spazio che determina non è ortogonale, si arricchisce di linee inclinate che lo indirizzano verso uno lo zenit del colmo.

Il vuoto del sottotetto, della soffitta era, nella casa, uno spazio adibito a sgombero e ad alloggi di fortuna, uno spazio povero idealizzato dal romanticismo dove si svolge la vita degli artisti, la vita di Bohème, dove Rodolfo cerca di scaldare “la gelida manina” di Mimì.

La struttura è spesso fabbricata con travi di legno che, secondo l’abilità dei carpentieri, hanno una configurazione affascinante fatta di incastri che si sono affinati nel tempo, sono diventati più robusti al fine di utilizzare anche travi di minor lunghezza e quindi rendere la costruzione più economica ma efficiente e adatta a sostenere il manto di copertura.

Il legno con un colore caldo e una bellezza che ci è familiare, attinge alla naturalità anche se è pesantemente industrializzato e produce uno spazio confortevole e accogliente; uno spazio che pare possa generare un po’ di felicità.

Dove la soffitta non è adibita ad abitazione la luce quasi sempre scende dall’alto, ai confini non vi sono finestre, vi è solo la vista del cielo; se fossimo disposti a sognare potremmo pensare di essere a bordo dell’astronave Enterprise “diretta all’esplorazione di strani, nuovi mondi…”.

L’esplorazione di strani nuovi mondi non è sempre priva di pericoli, quando il sole tramonta e la luce scema fino a morire il sottotetto diventa la terra inesplorata dove si nascondono i leoni e le paure della notte.

Bisogna distinguere tra la soffitta della stalla che accoglie Gesù che non fa parte di un condominio e rinchiude tutte le magie benevole e tutte le magie maligne che la nostra fantasia riesce a immaginare e che invece si diluiscono nello spazio di un sottotetto diviso in piccoli locali che si affacciano su un corridoio rettilineo che ne permette un accesso funzionale.

Lo spazio si riduce a superficie come succede nelle compravendite immobiliari, la quantità dei metri e la loro squadratura stabilisce una barriera pressoché invalicabile all’immaginazione.

Infatti, se pensiamo a un tetto piatto, in realtà un piancito impermeabilizzato sopra l’ultimo piano abitato e adibito a deposito/sostegno delle macchine per la climatizzazione, lo consideriamo come estensione immobile della superficie e non come qualcosa di accogliente.

Solo quando, e se, si trasforma nel “toit jardin” (il secondo punto dell’architettura secondo Le Corbusier) cioè quando diviene altro da sé: da spianata a elemento naturalizzato, vale a dire quando lo spazio si diversifica, ci fa percepire un’altezza e diventa qualcosa di meno definito ci conforta e ci permette di sognare e fantasticare.

Il legno pare un elemento fondamentale per la definizione di uno spazio umanamente vivibile: nel tetto a falde artificializzato, su un tetto piano nella naturalità degli alberi.

Se il legno apparenta lo spazio di queste costruzioni ciò che le dissocia in modo radicale è il fatto che uno è al coperto e l’altro è esposto agli elementi, perciò uno è abitabile mentre l’altro è un accessorio del fabbricato sottostante.

Quando il sottotetto si trasforma in abitazione genera uno spazio coreografico dove le aperture orizzontali delle finestre ad abbaino arricchiscono la piramide allungata generata dalle falde, o con finestre che seguono le inclinazioni fanno piovere la luce sui locali o ne modificano la forma come l’invenzione dell’arch. Mansard che caratterizza e ci fa amare il profilo di Parigi.

Oltre alla messa in opera della luce e delle sue variazioni anche la struttura di sostegno può avere una sua vocazione estetica che mette in gioco la forma delle capriate e degli elementi che le compongono secondo l’estro e la sapienza dei costruttori.

Da una stalla, da una capanna caraibica, dalla casa di Adamo si sono sviluppate forme estremamente variegate che contribuiscono e rendono le nostre vecchie città ampiamente riconoscibili e differenti tra loro. La varietà di forma dei tetti ci parla di un abitare dapprima di risulta e divenuto seducente proprio per la sua possibilità di costruire spazi inusitati, ricchi di variazioni e generatori di intimità personali, penso allo spazio a cui danno vita gli anfratti prodotti dalla costruzione degli abbaini che pur aperti verso lo spazio collettivo delineano una piccola oasi solitaria.

Concludendo se i tettopiattisti sono per un’omologazione delle forme che genera un ordine che non ci appartiene, i tettofaldisti sono coloro che più si avvicinano alla varietà della natura e danno agli abitanti la possibilità di fuggire e continuare a sognare.

Paolo Aina, Le case dell’uomo, 2021.
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