UCTAT Newsletter n.41 – gennaio 2022
di Andrea Tartaglia
Ultimamente si è posta grande attenzione al tema della rigenerazione urbana anche attraverso una serie articolata di proposte normative, leggi, delibere che hanno coinvolto i diversi livelli amministrativi pubblici. Ma per capire se servano o meno leggi “straordinarie” per sostenere la rigenerazione, prima di tutto dovremmo chiederci quali dovrebbero essere le ragioni che spingono a ritenere necessari i processi di rigenerazione e anche quali dovrebbero essere le condizioni minime perché un intervento rientri nell’ambito della rigenerazione differenziandosi rispetto a una semplice proposta di sviluppo immobiliare e/o di riqualificazione edilizia e urbana.
Già in passato, infatti, le norma nazionale (Testo unico per l’edilizia) parlava di interventi “rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale” ma li classificava come ristrutturazione urbanistica.
Quindi è evidente come il “semplice” cambiare volto alla città rinnovandolo e attualizzandolo o modificare le funzioni ospitate negli immobili non siano elementi sufficienti per parlare di rigenerazione. Per parlare di rigenerazione bisogna necessariamente alzare l’asticella con elementi che ad esempio vengono richiamati nel disegno di legge sulla rigenerazione urbana di cui si sta discutendoin questi giorni nella XIII Commissione del Senato. Elementi quali innalzamento della qualità della vita nei centri storici e nelle periferie; integrazione funzionale tra residenze, attività economiche, servizi, spazi e attrezzature pubbliche per il tempo libero e la socialità, incentivare la densificazione liberando parallelamente il suolo per un riequilibrio ambientale; soddisfare la domanda abitativa debole e la coesione sociale; attrarre investimenti privati orientati agli obiettivi pubblici della rigenerazione urbana.
Ne deriva che contenuti fondamentali delle progettualità per passare della ristrutturazione alla rigenerazione siano perseguire, e soprattutto ottenere, obiettivi di miglioramento non solo fisici, ma anche di carattere sociale, economico, ambientale e culturale.
Di fronte ad un’area o a un immobile dismesso e degradato, per poter indirizzare la trasformazione verso una vera rigenerazione ci si confronta con due ordini diversi di problemi.
Il primo è superare le criticità che nei fatti non permettono l’attivazione degli interventi sull’area o immobile in oggetto.
Il secondo è fare in modo che l’intervento non sia un semplice sviluppo immobiliare ma possa configurarsi come vera e propria rigenerazione.
Esistono tuttavia diversi elementi ostativi.
È importante ricordare come già oggi, quando parliamo di sistemi puntuali (edifici o complessi edilizi) e non di infrastrutture a rete, è indubbio come i veri progettisti e attuatori siano diventati gli operatori privati che spesso si trovano a dover progettare e realizzare (soprattutto negli interventi più grandi) anche le dotazioni di servizi pubblici e i sistemi infrastrutturali ad essi connessi.
Sempre più lontani i tempi dell’impresa sociale di Adriano Olivetti ma anche di Enrico Mattei, tuttavia si deve tornare ad un riequilibrio tra pubblico privato. E questo dovrebbe essere tra i ruoli principali dell’Urbanistica.
Semplificando il problema, se alcune aree, soprattutto nel contesto milanese sono e rimangono poco o per niente attrattive è probabilmente perché non si riesce a strutturare un business plan che da un lato preveda una giusta remunerazione del rischio di impresa e dall’altro incontri una domanda in grado di remunerare l’investimento. Di conseguenza i proprietari degli immobili /aree vanno alla ricerca di una domanda sempre meno qualificata o esigente realizzando così un circolo vizioso che porta comunque ad abbandonare il bene e al degrado.
A tal proposito, è forse utile richiamare un tema che è stato centrale nel dibattito architettonico-economico nei decenni passati e che oggi è spesso accantonato, quello della rendita fondiaria di posizione. Analizzando la maggior parte degli ambiti dismessi o degradati è indubbio come si tratti sempre di immobili ormai inadeguati dal punto di vista tipologico e funzionale e, quindi, di beni il cui valore intrinseco è nullo (anzi il valore dovrebbe essere negativo considerando l’onere del loro smaltimento). In realtà questi beni si portano dietro un’area il cui “prezzo” (e non ancora valore) spesso è quello che rende poco interessante un’ipotesi di sviluppo immobiliare.
In questo senso l’approccio normativo regionale, non potendo o non volendo incidere sulla rendita fondiaria, ha cercato di incidere su altri elementi di costo, intervenendo direttamente sugli oneri “comunali” e indirettamente aumentando le possibilità volumetriche. Agendo, quindi, sul primo livello del problema: far partire gli interventi.
All’opposto, nel caso di Milano, l’approccio comunale espresso dalle norme del PGT era maggiormente di tipo punitivo, nel senso che nel caso di non intervento il “valore” dell’area veniva in qualche modo compresso rispetto alle potenzialità future rendendo in un certo senso ancora meno vantaggiosa la sua trasformazione.
Certamente non è facile capire se e quanti interventi il modello incentivante e quello punitivo abbiamo attivato in più rispetto all’assenza di questi due modelli.
In ogni caso, anche considerando il numero di segnalazioni/richieste ricevute dal comune di Milano lo scorso anno, la legge regionale (nella vecchia versione dell’articolo 40 bis) sembrava comunque aver stimolato un certo interesse degli operatori ad intervenire su aree abbandonate da più di 5 anni.
Il tema che rimane però aperto è come far evolvere interventi di sviluppo immobiliare in azioni di rigenerazione urbana. E qua il sistema attuale sembra maggiormente carente e, forse, in alcuni casi, contradditorio.
Ad esempio, l’equità sociale, che significa anche evitare i processi di gentrificazione, garantire una qualità dello spazio pubblico diffusa e non solo rispetto alle “pertinenze” degli interventi più recenti, appare ancora molto lontano.
La recente ricerca di Nomisma per il Comune di Milano “Milano Inclusiva. La produzione di case in locazione a costi accessibili” evidenzia che: “se il costo per l’alloggio, affinché sia effettivamente accessibile, non deve essere superiore al 30% del reddito familiare, dallo studio emerge una domanda potenziale di 146.500 nuclei familiari – quasi il 20% del totale dei nuclei milanesi – che negli ultimi 10 anni non ha trovato una nuova offerta adeguata”.
Il problema, tuttavia, è che il mercato dell’edilizia convenzionata a Milano considera principalmente nuclei familiari con redditi mensili fino a 2.000 euro. Ma chi ha un reddito familiare superiore – ma non troppo – a 2.000 euro può accedere facilmente al mercato libero nel contesto milanese? Probabilmente no.
La memoria torna ai dibattiti che negli anni Sessanta avevano portato alla legge 167 del 1962 e al tentativo dell’annullamento della “rendita fondiaria” per non voler erodere “l’equo profitto di impresa”.
Certamente per quanto riguarda il tema della rigenerazione e l’accesso all’abitazione è necessaria una nuova forma di patto sociale. Un patto però che deve coinvolgere tutti gli attori.
Infatti, il costo del significativo “valore aggiunto” per passare dal mero sviluppo immobiliare alla rigenerazione difficilmente può essere totalmente “imposto al privato”. In caso contrario ritorneremmo ad un modello punitivo che, fino ad oggi, non sembra abbia portato a particolari risultati.
La legge regionale sulla rigenerazione è stata un primo strumento a disposizione dei Comuni, ma il passaggio dall’idea di trasformazione delle città a quello di rigenerazione non può rifarsi ad indicazioni quantitative generali e non localizzate. Le grandi riorganizzazioni dei sistemi urbani sono sempre passate attraverso una visione progettuale (e non semplicemente pianificatoria) pubblica. Oggi invece si è passati ad un trasferimento al privato anche della visione della trasformazione degli spazi pubblici (si pensi al caso estremo di piazzale Loreto), responsabilizzando l’operatore privato rispetto a temi su cui la responsabilità deve invece essere indubbiamente del pubblico.
L’attuale legge incentiva o meglio facilita l’intervento negli ambiti dismessi ma non per forza li indirizza specificatamente verso la rigenerazione. Bisogna infatti domandarsi se la casa sia diventata più accessibile, se la gentrificazione si sia fermata, se i progetti impattino positivamente anche all’esterno del lotto di intervento e se arricchiscono lo spazio pubblico e i servizi; se, infine, la qualità diffusa non solo degli edifici ma anche che degli spazi pubblici sia effettivamente aumentata in centro come in periferia e rispondersi conferma che alcune criticità esistono realmente.
La pandemia ha ancor di più evidenziato le criticità del patrimonio edilizio diffuso in ambito cittadino rispetto alla sua qualità e alla mancanza di una serie di spazi accessori di carattere privato, semi privato e anche pubblici.
Col modello attuale, il rischio è che la rigenerazione si riduca ad un patentino che verrà dato agli interventi sulla base di un algoritmo (superfici filtranti, consumi energetici, etc.) senza però che (come talvolta già accade rispetto al tema della classe energetica) i valori derivati dall’algoritmo trovino riscontri in una realtà oggettivamente migliore. Probabilmente molti operatori sono disponibili ad andare nella direzione di progettualità più in linea con l’idea di rigenerazione e non di semplice sviluppo immobiliare, ma non sempre l’attuale armamentario normativo e il modello burocratico pubblico facilitano realmente la possibilità di operare in tal senso. Fermo restando che la progettualità dell’operatore debba necessariamente essere indirizzata dalla componente pubblica, sia tecnica che politica, è evidente la necessità che il modello burocratico pubblico debba realmente facilitare la possibilità di operare in coerenza con gli obiettivi della rigenerazione. La strada tracciata va nella direzione corretta ma il percorso è ancora lungo.
