L’evoluzione dell’architettura

UCTAT Newsletter n.42 – febbraio 2022

di Marino Ferrari

Fabrizio Schiaffonati mi invita a dialogare sul tema “La fine del processo evolutivo dell’architettura”, suggerito da Matteo Gambaro nell’ultima News. In apparenza il tema non sarebbe così complesso se non fosse per le motivazioni o meglio per le spiegazioni che l’argomento stesso sottende. Si parla di architettura e con una certa sensibilità che appartiene alla “cultura architettonica” ma, di una certa cultura architettonica. A bene vedere, questa cultura si è andata esprimendo con un processo di alimentazione proprio, di autogenerazione, sostenuto dalla pluralità dei suoi “cultori” e dei suoi adepti. Forse partendo da qui potremmo nel frattempo mettere in evidenza il processo culturale, che si affermaessere evolutivo, ed il prodotto di tale cultura; la cultura diversamente, nella sua accezione, non ha prodotti ma processi: architettura come fatto materiale, per intenderci, e dunque il processo complesso ed articolato che la genera. Per rientrare, e credo inevitabilmente, negli ambiti filosofici che sostengono il divenire e la narrazione della storia, l’architettura si mostra nella modernità come una grande e bella sovrastruttura che ha avuto, in un certo momento (poniamo dalla Rivoluzione Francese) la difficoltà, sia pur risolta opportunisticamente, di collocarsi come disciplina, “nell’empirismo” piuttosto che “nell’accademia”: entrambe sempre più a loro volta collocandosi nelle divisioni del sapere e nella sua parcellizzazione. Ovviamente, sempre collocati nella modernità individualistica ed utilitaristica di ciascuno. I processi produttivi, quelli materiali a cui seguono quelli sociali e tutto ciò che ormai appartiene al quotidiano e nuovo “antropocentrismo”, hanno saputo classificare anche i processi architettonici distinguendone, all’interno di ostinati estetismi, le specifiche competenze professionali; diversamente, perché si è parlato ed oggi si menzionano le scuole con i relativi cadetti?

Vi è dunque una sostanziale interdipendenza; certamente “sta terminando un’epoca in cui si credeva che l’architettura potesse trasformare artisticamente il territorio e le città” con una precisa funzione sociale: ma fu ed è una pia illusione. Quando mai un processo artistico cambia il territorio e le città, molto simile a quel processo che mette in discussione la filosofia stessa, che, trascendendo l’utopia, si trova alla fine senza risorse. Oscar Niemeyer ripeteva sovente che solo la rivoluzione poteva cambiare lo status quo e non l’arte: c’è un fondamento di verità in questa sospirata affermazione vale a dire che, solo modificando un sistema sociale si può dare forma e vita ad una società diversa e migliore, comunque diversa, nella quale anche l’Architettura possa entrare a tutto tondo nella sua realizzazione. Indubbiamente, sia le ambizioni degli Architetti che si sono maggiormente impegnati in tal senso, sia gli aspetti culturali a loro attinenti, sono ammirevoli al punto che intere generazioni si sono “generate” culturalmente nelle loro università; quelle università che, chi più empirica,  chi meno accademica, hanno sempre inseguito la materialità espressa dalla società senza anticiparne le contraddizioni e le criticità, salvo qualche raro distinguo; dimostrando così la “dipendenza” se non addirittura la completa subalternità. Infatti, l’architettura si è limitata di fatto ad interpretare eseguendo, anche con un poco di presunzione, le indicazioni per cui il prodotto è la realtà in cui si trova. E ciò a sostegno della grande diversità che corre (da tempo ormai) tra la struttura che genera la “materialità” e gli apparati, pur critici, in grado di renderla concreta e fruibile. Quando si afferma (come espresso in una news) che l’Architettura è “morta” (e con essa anche l’urbanistica) aggiungo che son proprio i suoi “cultori” tra i molti ad averla annullata. Occorrerebbe quindi gridare: morta l’architettura, viva l’architettura? Direi di no, saremmo destinati a riviverne le profonde e ineluttabili conseguenze.

Ma oggi, vi è una cultura architettonica fondata sullo stupore e la novità, sul “desiderio di distacco e di rottura dall’esistente” con una estetizzazione che nulla ha da vedere con la “storia e la cultura dei luoghi”? lo stretto legame del sistema produttivo e riproduttivo (economico) con la così detta architettura porta inevitabilmente ad una involuzione perché sono gli attuali processi produttivi a non evolversi; è la crisi del sistema stesso (economico) a procedere drammaticamente verso una involuzione, anzi, verso l’unica involuzione possibile, considerando la complessità e la dipendenza sociale ed economica: cioè l’estinzione. Estinzione che, come credo di poter sottolineare, sarà progressiva, non violenta, ma drammatica. Secondo alcuni studiosi in una scala di cinque valori strutturali.  Che l’architettura appartenga al mercato mi sembra talmente chiaro da rendere inutile qualsiasi altra dimostrazione: basta guardare, per dirla con Flaiano, e non vi è bisogno di inserirla in uno dei valori. L’architettura è stata omologata ai principi enunciati e si è fatta, nei migliori dei casi, in una semplice e bella edilizia dove per edilizia bella si può intendere un “processo costruttivo che risponda alle regole dell’arte ed in grado di soddisfare le esigenze per le quali nasce”; ciò che è fatto bene è comunque bello, potremmo asserire. Pertanto, può essere che l’odierna cultura sia segnata dallo stupore e dalla novità, ma certamente non ha nulla da vedere con il rispetto della cultura dei luoghi e direi anche del paesaggio. (pur rispettando il beneficio di un chiarimento terminologico e di sostanza). Sarebbe meglio definirla una “cultura degli oggetti”, invertendo la posizione del cucchiaio (Gregotti docet), inserendo anche le altre posate, contornandole di verdure che emanino i sapori della natura.

Poi abbiamo la rigenerazione urbana: come viene definita prima ancora di essere praticata questa rigenerazione urbana? Mettere mano allo status quo, togliendo ciò che è “brutto” ed inservibile (a cosa?) ed immettere la novità sostenuta da un maggiore o inusitato respiro ambientale, mantenendosi di fatto sulla generica e sovente astratta “riproduzione della natura devastata dal rapporto città campagna,” in cui l’architettura ci ha messo del suo e in tutti i luoghi? Rigenerare, si direbbe, dare nuovo genere ovviamente rendendo piacevole ed utile l’antropizzazione del territorio secondo un pensiero che esprime nella totalità i principi della cultura metropolitana. Per fare ciò, nell’attuale PNRR, si mettono insieme le stelle del nostrano firmamento architettonico affinché possano attribuire nel concreto non solo alla definizione ma alla realizzazione sul campo della rigenerazione.

Certo, siamo al termine del processo evolutivo, anzi ne facciamo parte da tempo, ma questo processo non ha subito reali critiche durante il lungo percorso e si è limitato ai soli effetti dovuti alla contemplazione, come porsi di fronte ad una tela, limitando le osservazioni alle regole ed agli approcci non materialistici e strutturali, ma alle sembianze squisitamente estetiche, anche articolate con concettualizzazioni differenti e sostenute da paradigmi filosofici appropriati. Non credo che le “nuove generazioni” siano in grado di rivoluzionare il sapere con una intelligenza inventiva; il motivo è alquanto semplice. Innanzitutto, l’invenzione integrandosi alla immaginazione finisce per essere una categoria che mistifica le relazioni proprie della scienza e va di pari passo con le regole della conflittualità e della competizione. Le nuove generazioni stanno crescendo educate da manipolatori economici ed addirittura contaminate dalle narrazioni tecnologiche, la cui astrazione è nella propaganda visionaria che proietta un mondo virtuale, non reale, in grado di soddisfare bisogni falsamente indotti e dati come fondamentali; i profitti vanno e andranno altrove. Ovviamente tutto è sostenuto dal linguaggio della comunicazione “fattasi scienza” e venduto come disciplina rigorosa, a tutto tondo, al servizio del mercato; là dove anche i consumatori sono divenuti essi stessi merce. E perché, dunque, non dovrebbe esserlo l’architettura? Proprio perché merce, essa soggiace a tutte le regole del mercato nella sua involuzione programmata, portandosi appresso adepti, sognatori ed accademici.

Il “linguaggio della comunicazione”, vale a dire il linguaggio della comunicazione diffusa, si badi, non è solo indirizzato al consumo dei prodotti quotidiani, ma risiede nelle articolazioni che precedono e seguono il progetto di architettura. Lì la fantasia si scatena con una diffusa banalità. Le narrazioni del progetto appaiono appartenere ad una altra dimensione. Le forme corrispondono al linguaggio, la forma esprime il linguaggio, la forma contribuisce alla sua narrazione. L’architettura sino a qualche tempo considerata una arte disciplinata al limite della sacralità, viene sostituita con la creazione di oggetti: infatti sempre più si esprime con il design ( che tra le altre avrebbe un significato molto prossimo alla complessità).  Ed è qui che risiede la grande illusione del Sapere, il sapere legato alla natura umana, alla complessità ambientale, allo sviluppo del pensiero contemplativo e trascendentale, alla liberazione dello spirito: insomma a tutto ciò che appartiene all’individuo e non alla tecnologia presa come divinità per affidarci e uscire dalla attuale crisi esistenziale. La crisi esistenziale l’abbiamo costruita con magnifica e progressiva attenzione. L’architettura è parte dell’organismo. Ciò dimostrerebbe come, parlare di architettura esibendo gli schemi vetusti sia di fatto controproducente, come d’altro canto è fuorviante parlarne in termini di progresso. Che cosa renderebbe “progressiva” l’architettura se è difficile, distinguere nel paesaggio urbano di una megalopoli dell’emisfero occidentale, un edificio di una megalopoli dell’emisfero orientale, se i suoi caratteri così detti estetici, i suoi stilemi, se così ancora si possono chiamare, sono i medesimi; forse l’iconico albero sul balcone costretto in una vasca, misera “icona” appunto della difesa umana ed architettonica, alla reazione inesorabile ed inequivocabile della natura? La stessa logica si trova nelle architetture (continuo a definirle così, ci sarà un motivo?) minimaliste, quelle non grossolanamente immobiliari, dove le matrici sono reiterate anche se articolate con illuminata intelligenza. Quante ricerche sull’abitare sono state sciorinate dalle università, quante tesi di laurea sui conflitti compositivi? Ciò nonostante, appena entrati nella materialità produttiva della realtà, tutto si ridimensiona, tutto si adegua e si scompone. Quali mutamenti? Anche i grandi personaggi che vengo definiti star (di quale firmamento poi?) si comportano seguendo uno schema che da una parte serve al proprio “mantenimento professionale”, dall’altra, con le individuali configurazioni, servono ad assommare ideologicamente la concretezza delle volontà speculative con le formalità rappresentative, che inducono, ahinoi, falso insegnamento ed imitazione per le nuove generazioni.

Certamente l’attrazione tecnologica e la relativa enfatizzazione dei sistemi impiantistici sono inevitabilmente diventati quella forma edilizia non sempre nascosta che potrebbe portare alla “bellezza” complessiva di un manufatto e il superamento della “normale” nomenclatura architettonica; indubbiamente, ma non è da oggi. Vi è stato un momento della storia che ha visto un conflitto tra modernità e genio ingegnere, in cui “l’allegoria è distruttiva”. Ma ha a che fare con la eliminazione della apparenza illusoria[1]La prestazione energetica di un edificio si scontra come pure si incontra con le definizioni di architettura; che cosa potrebbe essere diversamente se essa deve rapportarsi al luogo ed alla sua storia?  Al suo contesto? il luogo necessita di una difesa e la nostra storia di una continuità. Non dobbiamo né meravigliarci né disperarci di fronte al sopravvento tecnologico il quale, qui, è semplicemente una manifestazione anche invadente, dell’amore disciplinato per la tecnologia e per le ricche conseguenze che può portare nella esistenza di ciascuno di noi. Amore che ciascuno interpreta e rappresenta in una sua visione del mondo! ahinoi! E l’architettura ne è la valida espressione.

Che fare? Oltre il superamento della complessa contraddizione tra accademia ed empirismo di cui l’architettura, ieri come oggi in particolare, si nutre ma non individua gli strumenti per affrontarla? L’ architettura, quella Architettura, è caduta su sé stessa, sotto il peso delle illusioni e delle menzogne culturali e materialistiche. E si continua con la indifferenza. Dunque, occorre sgombrare le menti dai processi creativi (!) ormai calcificati ed affrancarsi contemporaneamente dalle regole che hanno governato quegli schemi, per affondare la lama del discernimento nel corpo del sistema materiale, quel sistema che produce e riproduce contraddizioni paradossali e assorbe quel poco di “autonomia” filosofica che è rimasta, prima che essa, anziché evolvere togliendosi dalle ceneri, involva definitivamente.

Diversamente si narrerà solo dell’unicorno.

Post-scriptum

Potrei anche aggiungere: tagliamo la testa al toro, ma siccome son contrario e non so che cosa significhi realmente, mi limito a suggerire:

per intendere meglio e nel cuore del mio pensiero articolato, facciamo che, si prendano alcune opere dei “migliori e grandi” architetti ricorrenti, e le si esaminano come si esamina in laboratorio un qualsiasi organismo. Lo si seziona, si separano le molecole e si affronta l’analisi, anche al microscopio che qui, ovviamente non sarà puramente tecnologico, ma composto da diversi e significativi paradigmi culturali e/o disciplinari, a piacere. Al momento li si assumono.

Se poi come credo, l’architettura è “morta”, si prenda il suo cadavere e lo si vivisezioni.

Questo per uscire dalla ormai stereotipata narrazione secondo la quale il grande architetto, poi imitato anche dal piccolo e sovente campagnolo, afferma che quella opera “vuole significare”, oppure “prende spunto da”, si “riferisce”, la cui “forma ha origine”, e via con queste baggianate.

Il museo sul mare si richiama ad una nave nel porto……Bene, perché non hai preso una nave direttamente?

Ho voluto portare la natura in città…perché non ci vai tu nella natura?

È come un cristallo di neve ….. accidenti, che freddo!

E qui, ne avrei di sciocchezze di questo tipo, con le quali raramente si dice qual è il tema, qual è il problema e quale è la soluzione. Ovviamente la soluzione c’è, ma è talmente banale e fuorviante da lasciare non solo perplessi ma sbalorditi ed irrequieti. Per cui, ad esempio, in località montane si realizzano tetti con impluvio anziché displuvio. Sarà per voler conservare anche la neve.

Con questo metodo semplicissimo si vedrà se il pensiero appartiene alla cultura e quale pensiero appartiene a quale cultura, visto che la “cultura” appare fatta di interpretazioni. Le interpretazioni stimolano la mente, razionalizzano il ragionamento, materializzano anche le espressioni, e poi, va da sé, si scontrano con la realtà. E qui si vale la nobilitate!

Certamente, calata l’ancora diventa faticoso recuperarla, con i marosi.

L’esempio più “classico” è quello di Vasari, con le sue “vite dè più eccellenti pittori, scultori et architettori”. Non una fotografia.

Ma anche qui, la biblioteca sola ci porta conforto spirituale: solo quello.


[1]W.  Benjamin in Parigi capitale del XIX secolo. Citazione sovente usata che vale richiamare per affermare, almeno, che determinate analisi si son fatte da tempo, solo che sono entrate negli apparati accademici e fanno felici chi li legge.

Marino Ferrari, Alla finestra, 2022.
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