Microfilosofia dei balconi

UCTAT Newsletter n.32 – marzo 2021

di Fabio Gabrielli – Professore di Filosofia della Relazione presso la School of Management-Università LUM di Milano

Milano è una città costellata di balconi, la stilista Chiara Boni, non a caso, li ha scelti per ambientare la sua collezione per il prossimo autunno-inverno.

Se poi pensiamo alla prima fase della pandemia, Milano, come tutta l’Italia, ha riscoperto nelle finestre e nei balconi i luoghi privilegiati da cui far risuonare nei cortili, nei crocicchi delle vie, nelle piazze vuote e silenti le colonne sonore di canzoni che hanno scandito la nostra storia.

Da cui, con grida, gesti, posture, segnalare al mondo, il mondo che conoscevamo prima, che la nostra presenza, proprio la nostra, forse quella dei più fragili di tutti gli esseri, non è cosa accidentale e vana.

I volti affacciati dai balconi hanno voluto farsi testimoni di carne, hanno voluto rimarcare che, per usare una superba immagine di Reiner Maria Rilke «Essere qui è magnifico»(Hier sei ist herrlich): la vita, anche solo un suo frammento di pienezza, è traboccante di senso, di sensi, di un sentire, affettivo, immediato, pulsante, che precede sempre la presa concettuale.

I balconi non solo come una prassi consolatoria, un rassicurante affaccio collettivo sul mondo, con cui addomesticare l’angoscia che, a differenza della paura, con il suo carico di indeterminatezza si fa martellante, ossessiva, persecutoria, ma anche come nodo ontologico, affermazione quasi primordiale d’essere, rivendicazione che il senso complessivo del mondo rinvia anche al nostro traballante esserci.

Che siamo, che amiamo, che creiamo, che sappiamo anche distruggere e distruggerci, eppure che sappiamo anche resistere alla distruzione e alla morte.

I balconi che hanno punteggiato pagine assolute della nostra poesia e della nostra arte, così come pagine dolorose della nostra storia, nei giorni dell’isolamento, del contagio, del dolore, ci hanno fatto sentire la loro voce, ci hanno interpellato sulla loro natura, ci hanno fatto riscoprire la loro specifica collocazione nel mondo delle cose.

In fondo, cos’è un balcone?

Una sporgenza, una protuberanza, una dilatazione del dentro verso il fuori.

E ancora, uno sconfinare da un interno che ci custodisce e protegge verso un esterno imprevedibile e magmatico, comunque sempre saldato a un dentro rassicurante, o che dovrebbe essere rassicurante.

Un parapetto, una balaustra, una ringhiera incorniciano il balcone delimitandolo, rendendolo una riserva di mondo, tenendo a distanza la possibile ostilità del fuori, ma anche permettendo di osservare questo fuori, il mondo fuori, nella sua luminosità, certificando che questo fuori è costituito di innumerevoli balconi.

E allora, ci sentiamo abitatori abitati, consegnati a un continuo rimescolamento del dentro e del fuori; anzi, a una loro fusione mondana.

Dove c’è relazione, e l’uomo è relazione, non ci sono più un interno e un esterno, un dentro e un fuori, un riposto e un esposto, ma disseminazione e contaminazione di mondi.

I balconi sono come dei bordi, colpi di lama, tagli, ritagli del mondo, l’arrestarsi, l’arretrare di una struttura, la nostra casa, per slanciarsi in avanti, uno spaziamento, un effluvio di energia, che fa del bordo un abbordare, nel senso di un incontro con altri bordi, con altre singolarità, per amare o per distruggere.

Ma ogni abbordare, ogni sbalconamento, ogni congedo dal proprio balcone, ogni forma di allontanamento da un fuori solo iniziale, disegna sempre il profilo di una singolarità, di plurime singolarità.

In questo senso, il balcone è il limite estremo della nostra casa che contatta il mondo, le plurime singolarità, esponendo il nostro esserci, la nostra singolarità, alle altre singolarità, ma sempre come apertura trattenuta.

Da una parte, il dono, la condivisone della propria finitezza; dall’altra, la preservazione del proprio segreto, della propria inestricabile intimità, trattenuta, appunto, poiché inaccessibile all’altro, ignota, nella sua ricchissima eccedenza, anche a noi stessi.

Dell’esserci, della nostra singolarità, si può dire in molti modi, sempre diversi, mai completamente nostri, mai completamente dell’altro, radicalmente inappropriabili.

Singolarità segnate da sovrabbondanti circonvoluzioni, pieghe su pieghe, traiettorie multidimensionali che si incrociano ovunque, linee sempre aperte, imprevedibili, in cui non c’è fissità alcuna, bensì improgrammabilità, creatività di mondi.

Nell’affacciarci ai balconi, esponiamo le nostre inesauribili singolarità in una comune finitezza, in cui la comunità non è un’essenza prestabilita, una voce metafisica disincarnata, ma un fondo di eccezionalità (haecceitas, haec est, sono questo e non altrimenti) senza inizio né fine programmabili

Le plurime eccezioni del nostro mondo, degli altri mondi.

Il balcone ci permette di guardare dall’alto, da una distanza, gli altri mondi, poiché nella distanza si cancella ogni pretesa, sempre impositiva e violenta, di fare dell’altro un nostro adombramento, di ricondurre l’altro a un fondo comune che tutto incorpora e include, deprivando del contatto quell’unica comunità a cui siamo consegnati, la fragilità, la vulnerabilità come vulnus immediatamente etico, concretissima ontologia del contagio dei volti.

Vedo dal buio / come dal più radioso dei balconi, questo luminoso verso della poetessa Antonella Anedda, pur decontestualizzato, ci aiuta a ricapitolare la cifra più autentica dei balconi: solo stando in una zona non illuminata è possibile far risplendere l’esistenza, solo accostandoci all’altro non con l’estrema luminosità dello sguardo accecante e indagatore ma con il gesto incerto e trattenuto dello sfiorare, è possibile rendere l’altro radioso.

Fare della vita quello che la vita è da sempre: contatto tra fragilità che, nel loro abissale mistero, si ritraggono toccandosi. Ancora una volta i poeti, gli abitatori dei retrobottega della vita, i raffinati sensori del mondo, delle parole più preziose che noi gettiamo via come vuoto a perdere, sanno rintracciare la trama dell’esistenza in un umanissimo qui ricolmo di spirito.

Non la lettera delle rassicuranti ideologie dell’integrazione, o peggio dell’assimilazione, ma l’inquieto spirito del contatto «Ma qui, amabile luogo, qui niente accade. Tranne che ininterrotta un’umile esistenza. Eppure, a me sembra di sentire lo spirito colmarsi» (Roberta Dapunt, “Il pranzo”).

Édouard Manet, Il balcone, 1868.
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