Paesaggi liberati. Nuove interpretazioni per territori in trasformazione

UCTAT Newsletter n.31 – febbraio 2021

di Michela Bresciani e Alessandra Micoli – EUMM Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord

Proviamo a prendere una mappa della Città Metropolitana di Milano, cerchiamo il centro, spostiamoci verso la stazione Garibaldi, poi saliamo, cerchiamo i quartieri del IX Municipio, addentriamoci nell’area verde di Parco Nord Milano e guardiamo oltre, ai Comuni che lo contornano. Ecco il territorio da tenere sotto gli occhi, con una mappa, una rappresentazione territoriale rielaborata, che riprende il modello antico del mappare, inteso come processo lento di avvicinamento al territorio per descriverlo, ma anche per conoscerlo. Territori su cui EUMM[1] lavora spesso con mappe, strumenti efficaci non solo perché mobilitano le interconnessioni di senso, delle spiegazioni, dei significati nascosti del paesaggio, ma anche perché li rappresentano visivamente, diventando strumento fortemente comunicativo, sia in termini di restituzione del sapere raccolto, che di condivisione di saperi con tutta la cittadinanza.

Ogni mappa è un prodotto a sé, che si ritaglia sul percorso specifico, sulla fisionomia degli attori coinvolti, si modula riguardo al tema trattato e alla lettura che si vuole fornire delle diverse interconnessioni.

Entriamo dunque in questa mappa del Nord Milano, e vediamo cosa si apre al nostro sguardo.

Il Nord Milano per molti decenni ha rappresentato il simbolo dell’industrializzazione lombarda e dell’intero Paese. A differenza di altre città italiane, Milano sviluppa un’industrializzazione basata sulla grande impresa: nel Nord Milano la presenza dei poli industriali – meccanici, siderurgici e chimici – caratterizza per lungo tempo il territorio e l’identità dei suoi abitanti.

A partire dagli anni Settanta si assiste al progressivo disimpegno dell’industria dalle aree urbane di tutta Italia. Con la crisi e la deindustrializzazione dell’ultimo ventennio del Novecento le grandi industrie interrompono la produzione o la trasferiscono altrove: Breda, Falck, Pirelli, ma anche Santagostino, Manifattura Tabacchi, solo per citarne alcune, dismettono gli stabilimenti milanesi, spesso creando zone di degrado urbano.

Dagli anni Ottanta si progettano e realizzano interventi di sviluppo urbanistico delle aree industriali dismesse: i luoghi del lavoro si trasformano in luoghi di consumo, di cultura, di spettacolo. Le periferie industriali si trasformano in nuove centralità urbane, chiave della modernizzazione della città. Entro tale processo di riconversione funzionale, l’area del Nord Milano, pare attraversare per prima la profonda trasformazione che interesserà, più ampiamente, il resto dell’area metropolitana.

Guardare le mappe del patrimonio di archeologia industriale del Comune di Milano[2], così come la cartografia e le descrizioni del sito di Sesto per l’Unesco[3], è un buon esercizio per descrivere lo spessore di un mutamento radicale: relazioni, funzioni, equilibri propri al sistema industriale si rompono piano piano per cedere il passo a nuove economie e nuove interazioni, ancora non completamente riscritte. La lettura narra di territori un tempo densamente occupati da attività industriali e manifatturiere. Alcune aree si identificano in maniera indissolubile con queste: i colossi della Falck e della Breda, a Sesto San Giovanni, la Pirelli, dal lato della Bicocca, il polo chimico e, ancora, meccanico, dal lato della Bovisa; altre aree disseminate invece di una moltitudine di piccole e grandi realtà economiche, come una sorta di pulviscolo produttivo che animava tutta l’area. Una lettura che mette però in luce come questi spazi siano spesso chiusi, dismessi, riconvertiti o in stato di degrado: un panorama di piccole, medie e grandi, ma sempre profonde, trasformazioni.

In mezzo a queste presenze (o assenze) storiche e ingombranti, soprattutto nei territori di frangia, sorgono strutture spesso vuote e dismesse, alcune recuperate altre in stato di abbandono, tracce di altre vocazioni economiche del territorio: le vecchie cascine, alcune ancora in buono stato, ora spazi privati, testimonianza di un territorio che prima che industriale fu agricolo e che ritrova ancora, proprio in mezzo ai flussi della trasformazione, capacità, conoscenze e strumenti per recuperare quel passato. O, ancora, gli spazi della produzione industriale e manifatturiera che cedono il passo alla produzione del sapere e della cultura: le Università, Bicocca e Politecnico Bovisa, in primis, un tempo simboli del sistema industriale del Nord Milano ora luoghi di eccellenza nell’ambito della formazione e, al contempo, nuovi attivatori di trasformazione sociale e territoriale, grazie all’indotto che generano nei quartieri. Ecco allora le vecchie popolazioni di residenti che ringiovaniscono grazie alla presenza degli studenti e della popolazione straniera e la nascita di nuove attività artigianali e creative.

Quello descritto fin qui sembra uno spazio indefinito e vuoto, per certi versi, ma così non è: è ricco di storia, ancora presente e visibile nell’apparenza da piccoli borghi che ancora conservano alcuni quartieri diventati ormai pezzi della grande città (si pensi a Dergano, Niguarda, la vecchia Isola), o i vecchi nuclei storici di Comuni circostanti diventati anch’essi grandi città (chi mai ormai penserebbe a Cinisello Balsamo o a Sesto San Giovanni come piccoli Comuni della cinta periferica di Milano?).

La radicale trasformazione urbanistica e socio-culturale di questi luoghi può essere causa di spaesamento, di perdita del senso del luogo. Necessario pare quindi rispondere e accompagnare il processo di trasformazione del sistema rivalorizzando il legame con la storia, restituendo centralità ai saperi, alle memorie dei luoghi e alle relazioni tra i loro portatori, mettendo in luce quei fattori di resilienza propri dell’ecosistema urbano. Solo un approccio sistemico alla valorizzazione e alla condivisione di questo patrimonio può consentire al mutamento di divenire fattore di innovazione e sviluppo sociale. Si tratta di un approccio che richiede spazi e modalità comunicative adeguate, atte a rendere memorie troppo spesso considerate solo private un patrimonio di narrazioni collettive accessibile e condiviso. Pare opportuno ricordare che, se da un lato, è riscontrabile la potenzialità di un interesse che in questi ultimi anni è diventato sempre crescente per la valorizzazione del patrimonio di archeologia industriale, da affiancarsi a quello tradizionalmente inteso e conosciuto (chiese, musei, palazzi storici), dall’altro lato, a fronte di tale interesse, si rileva un’attenzione ancora acerba nei confronti del patrimonio immateriale e della comunità che ne è depositaria.

È questo il paesaggio culturale urbano entro cui EUMM si muove, mosso dall’obiettivo di avviare un itinerario di indagine alla ricerca di un patrimonio laddove non ce lo si sarebbe aspettato: individuarlo e indagarlo alla ricerca di un terzo paesaggio umano in cui siano le narrative a dare voce ai luoghi. Il lavoro dell’Ecomuseo (EUMM, ma non solo) prende l’avvio dai racconti che hanno rappresentato, nel nostro percorso di studi, una linfa vitale: da ascoltare e registrare sul campo. Con la consapevolezza che proprio quelle narrazioni si potevano rendere ancora vive e attuali attraverso un confronto con gli “indigeni metropolitani”. Nella pratica ecomuseale si va a costituire così una sorta di percorso condiviso, nella direzione di un’attivazione di quei saperi acquisiti con un registratore, per essere poi restituiti alla cittadinanza, affinché diventino patrimonio comune. L’ecomuseo è quindi da intendersi come contesto di ricerca, sempre per sua definizione imperfetta e in continua tensione, dall’incedere incerto: alle prese con la lettura del paesaggio come testo da decifrare, con vari strumenti, diversi sguardi, e con grandi difficoltà.

Difficoltà di lettura del paesaggio, in particolare quello urbano, che pare determinata, come sottolinea Turri[4], da una sua connaturata tendenza all’oblio. Egli infatti parla di una vera e propria sommersione, una trasformazione continua e radicale, che porta a obliterare i paesaggi ereditati dal passato.

La sommersione si concretizza in una stratificazione di significati, incastonati nel paesaggio urbano, molto difficili da leggere, sia per l’oblio degli attori (i nipoti non ricordano o non hanno mai ascoltato gli eventi vissuti o raccontati dai nonni) sia per quello del paesaggio (le trasformazioni nascondono le permanenze del passato). Trasformazioni che, in contesti esclusivamente antropizzati, non sono mai neutre. Raramente avvengono per cambiamento naturale del paesaggio e dei suoi elementi, ma sono invece frutto esclusivo dell’oblio umano, o della volontà espressa di creare oblio, di cancellare alcuni luoghi perché cambia la cultura.

Può essere suggestivo, pensando al contesto di lavoro di EUMM, porre attenzione al riuso di alcuni edifici, quasi fosse una “sconsacrazione”: a Sesto San Giovanni, cuore pulsante di una tradizione identitaria, politica, economica legata alle fabbriche (“la città delle fabbriche”, la “Stalingrado d’Italia”, città Medaglia d’oro alla Resistenza) il vecchio Vulcano della Falck si trasforma in un ben più prosaico centro commerciale “Vulcano”, che in qualche modo ne conserva la memoria, seppure solo nel nome, in alcuni sparsi monumenti in ferro nelle rotonde spartitraffico dei dintorni e nelle memorie dei vecchi Sestesi.

Ma pensiamo anche alla bellezza di quelle trasformazioni capaci di ridare dignità a quei territori che hanno subito delle violazioni. Ci riferiamo in questo caso a luoghi sparsi in tutto il continente che come delle arabe fenici risorgono dalle proprie macerie di guerra per dare vita a situazioni semantiche completamente differenti: facciamo riferimento a quelle collinette inaspettate all’interno dei pianeggianti parchi urbani milanesi, come succede ad esempio all’interno di Parco Nord Milano, dove le macerie della fabbrica Breda, raccolte e “riconvertite” hanno dato vita a un nuovo elemento paesaggistico e a un nuovo punto di riferimento sociale e culturale, la montagnetta, il “teatrino”, conosciuta da tutti i frequentatori di Parco Nord Milano. Il parco pubblico in questo caso diventa come una specie di organismo vivente che assimila macerie trasmutando la distruzione in rinascita. Quelli che furono accumuli sterili di rovine oggi sono ecosistemi ibridi, dove artificiale e naturale si compenetrano indistinguibili.

Non solo montagnette (che a Milano vantano diversi casi molto celebri), ma anche vecchie strutture industriali, che non rimangono inutilizzate o prive di senso, ma diventano parti molto ben integrate di un paesaggio urbano: pensiamo al famoso Carroponte alle soglie di Sesto San Giovanni. Ex colosso della Breda metalmeccanica, utilizzato per movimentare le locomotive, sopravvive alla dismissione delle aree industriali circostanti, vive un periodo di abbandono ma ritrova poi una sua funzione attrattiva, nel creare un luogo riconoscibile, per gli abitanti della zona e non solo. In tempi precedenti alla pandemia, il Carroponte era sinonimo di eventi culturali e ricreativi di grandissima attrazione, grazie alla sua monumentalità capace di costituire una scenografia inconfondibile, landmark di un patrimonio culturale relativo a tutto il Nord Milano.

Tra le trasformazioni che preferiamo citare ci sono senza dubbio anche i Bunker Breda che, rimasti intatti dalla seconda guerra mondiale, si offrono nella loro asciutta monumentalità diventando un pretesto narrativo di una storia da non dimenticare. E che ci aiuta a rendere visibili delle problematicità portandole in uno spazio di discussione pubblico e condiviso con l’obiettivo di riattualizzare il passato ampliandone la prospettiva.

Sono queste stratificazioni di significato, nascoste nel territorio e nei suoi terzi paesaggi, monumentali, naturali, antropici e narrativi che l’Ecomuseo cerca di indagare, portandole alla luce, di volta in volta con strumenti diversi.

Non aggiungiamo niente di nuovo, certo, se ricordiamo come il paesaggio sia un deposito di storie. È nondimeno importante sottolinearlo, perché è il punto di partenza di una prassi che corrisponde a un vero e proprio “frugare” in questo deposito: silente ma anche ricco di racconti.

Le tracce, se non tutte comunque tante, ci sono: geografi, archeologi, antropologi, come cantastorie, sono «coloro che raccontano ma anche coloro che fanno raccontare» (Turri, 2004: 168).

Accanto ai cantastorie, i griot: l’insider e l’outsider, che lavorano e dialogano insieme per riportare alla luce le narrazioni, unico strumento capace di fare fronte all’oblio, e di riconferire significati ai paesaggi vissuti, in modo che non sia più scenografia silente, ma spazio che racconta, repertorio narrativo cui attingere per rappresentarsi, a sé stessi e agli altri. In questo senso, anche le visite guidate da noi condotte non rappresentano un semplice attraversamento dei luoghi, ma un condurre in casa propria, condividendo con gli “ospiti” il piacere di far conoscere i propri angoli nascosti, il senso vero del sentirsi a casa. E di scoprire un’identità del luogo che proprio grazie alla sua stratificazione di significati non crei sentimenti di appartenenza esclusivi ma sia stimolo di continua apertura a nuove letture e nuove appropriazioni.

Umberto Lilloni, Paesaggio Lombardo, 1964.

[1]      Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord: www.eumm-nord.it.

[2]      Cfr. https://geoportale.comune.milano.it/sit/mappe/.

[3]     Purtroppo ora quelle mappe e il lavoro accurato che le aveva accompagnate, non sono più di accesso pubblico: il progetto di Sesto per l’Unesco, ovvero la candidatura della città all’interno delle liste del patrimonio immateriale è ora interrotto.

[4]       Eugenio Turri, Il paesaggio e il silenzio. Padova: Marsilio, 2004.

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