Riflessioni sulla cultura metropolitana

UCTAT Newsletter n.35 – giugno 2021

di Marino Ferrari

Tutti conosciamo la proprietà commutativa e sovente trasliamo i suoi principi nella realtà contingente; ma volendo dunque rientrare nella città, di cui sovente parliamo, questa proprietà torna utile. Se, ad esempio, volessi utilizzare un pannello di “lana di canapa” per realizzare una ottima isolazione anche sotto i profili ambientali, correrei il bellissimo rischio di approvvigionarmi presso una ditta dell’Alto Adige, la quale si fornisce di canapa nel cuneese che di seguito la trasferisce in Austria per le modalità di lavorazione e confezionamento. La prima osservazione, che rispecchia l’attenzione all’ambiente in questo caso di un prodotto naturale, è: tutto a kilometro zero? Ovviamente no, anzi questa “filiera” (termine come sempre abusato) è la peggiore qualificazione che si potrebbe attribuire ad un processo sostenibile (termine corretto che esprime innanzitutto condizioni ambientali di equilibrio)[1].

La proprietà commutativa cade a proposito perché al posto della lana potrei mettere fibre di legno o lana minerale o lana di pecora, ma i chilometri rimarrebbero, perché rimane il processo di produzione, senza intaccare sostanzialmente la così detta filiera. 

Volendo partire dalla organizzazione urbana, sia pure in questa evidenza sanitaria, è inevitabile osservarla sotto il profilo squisitamente produttivo. Certamente l’economia nelle sue differenti forme, materiale e finanziaria, induce le proprie conseguenze oggettive con le quali, sia pure con metodi differenti, la quotidianità si deve adeguare. Sono molte le sorgenti che ci portano a comprendere i meccanismi e le loro forme secondo i quali la realtà urbana, nonostante tutto, prosegue nel suo divenire. Il tema che la realtà urbana sottende nello svolgimento è il controllo dei propri meccanismi, l’ordinamento, la consequenzialità di tutto ciò che ne permette la sopravvivenza.

La città, è meglio sottolinearlo, rappresenta la “forma dei bisogni” ed i bisogni, condividono i destini, confondendosi tra bisogni reali primari e bisogni indotti. Quelli reali nell’attualità hanno come evidente obiettivo la “sopravvivenza”, quelli indotti invece, continuano nella loro manifestazione merceologica. Sono indotti oltre la reale necessità anche se la necessità si è fatta complessa. I bisogni hanno forma ed occupano spazio, dipende dalla loro valenza merceologica e consumistica. Le auto elettriche oggi, vengono proposte in dimensioni fondamentalmente non economiche, non utilitaristiche, ma tali da “servire” a una sola ed esigua classe merceologica, la quale si potrebbe anche non definire consumistica nella accezione del termine, ma in grado di tenere in movimento la complessa macchina produttiva. Essa procede tranquillamente sulla strada a doppia corsia, da una parte concorre alla produzione di tutto, sotto varie ed articolate forme, in modo che il prodotto venga imitato anche se non necessariamente “acquisito”; sull’altra corsia mostra le qualità differenti ivi rappresentate per dimostrare la “vera qualità” della vita. Il consumismo riguarda le “masse”, termine obsoleto ma necessario per dar categoria materiale alla vasta categoria di coloro che, subalterni in tutto, sono invitati a “consumare”, senza se e senza ma. Anzi, ad osservarli bene, appaiono gratificati nei loro soddisfacimenti.

Uno dei maggiori veicoli del consumo, anche se alla fine occorrerebbe una dimostrazione di tipo “scientifico” per affermarne la reale valenza, è la comunicazione, quella che in larga parte viene portata come scienza nell’insegnamento universitario: comunicazione dei prodotti di consumo in tutte le loro forme, cioè come presentarli sul mercato, credo si dica marketing. Si potrebbe dire che il tema è vecchio: certamente, ma la presenza degli apparati comunicativi (evito il termine pubblicitari ma tali apparati ormai ricoprono anche le comunicazioni istituzionali) è ancora lì, presente, indifferente alle condizioni sanitarie, superba nel dimostrare la virtualità delle azioni e contemporaneamente rinnovandosi[2]. Un apparato che esprime una bella fetta di economia, di circolarità del denaro, di apparati a loro volta in grado di sostenere la virtualità collocata nella realtà; un ossimoro vivente, tanto per cercare di dare materia e forma alle parole.[3] Ma questi apparati economici e produttivi, indipendentemente dalla qualità della produzione fortemente improntata all’immagine ed ai recitativi di appartenenza,(non scordiamoci che i nostri valori sono formati nella concorrenza, nella competizione e nelle relative forme creative di affermazione, di cui, ad esempio, l’architettura non è estranea, anzi) sono espressione di una “cultura” che vede nella produzione materiale l’indipendenza dalle forme di produzione; non vi è interesse sapere “come” nasce il prodotto, ma assume interesse fondamentale veicolare il prodotto verso un determinato consumo. Senza esagerare sull’argomento affrontato da alcuni saggi molto interessanti, ciò che invece appare dominante è la relazione tra trasmissione diretta del consumo, e il luogo del consumo.

Il territorio è un grande mercato, va da sé che il territorio sia l’espressione delle merci e delle regole di consumo. La città, dunque, quale attrazione può avere per la complessità produttiva delle merci, per la loro preparazione e per la gestione del consumo? Vi deve pur essere, per appartenenza, una stretta relazione tra luoghi e forme della comunicazione, tra luoghi e forme del potere comunicativo. La relazione può esistere nei processi culturali di attinenza; i processi culturali attengono alla produzione, sia pure (lo è) vasta, di tutti i bisogni, siano essi, appunto, reali ed immediati, siano essi indotti e quindi superflui, o meglio in grado di soddisfare presunti momenti e condizioni di “felicità”[4]. Una città che cerca e costruisce la sua materialità nella felicità è destinata a soccombere; una città invece che costruisce la sua materialità nella ricerca della gioia[5], costruisce il proprio vantaggio sulle forme di distruzione, del pensiero, della socializzazione e per ultimo sui processi decisionali che rendono difficoltosi ed inattuabili i processi democratici. E qui anche l’architettura, urbana o meno, “giuoca” il suo ruolo per distinguersi paradossalmente tra espressione “caratteriale ed espressione ideologica”. (felicità o gioia, individualismo o individualità, visione personale del mondo o visione “sociale” del mondo?) L’architettura, ad esempio salverà il mondo, come sovente viene ribadito? Dubito, essendo una sovrastruttura, una forma particolare attraverso cui la soggettività dell’architetto, si contagia con la struttura materiale della società a cui si riferisce; un contagio solo in apparenza in grado di modificare la realtà materiale, anche se può apparire “bella”. E la bellezza ogni volta scopre il petto davanti al plotone di esecuzione; dopo averlo armato.

È il superamento dell’individualismo a favore della individualità, e la partecipazione che viene chiamata di volta in volta democratica, per i processi di democratizzazione del mercato, anche se ciò può costituire una reale contraddizione. Ma le contraddizioni si superano chiarendole ed affrontandole, conoscendone i presupposti. Anche, per certi versi, fornendo il fianco ideologico senza timori se non quelli di venire colpiti da un analogo processo ideologico. Ma il bello delle contraddizioni, anche se tutto potrebbe rinchiudersi in una ed unica contraddizione, è proprio quello di svelare gli arcani meccanismi che governano le relazioni materiali e, solo più tardi, quelle sociali. Svelarli per denunciarne i limiti.

Sarebbe molto bello immaginare forme urbane improntate alla gioia! Sarebbe molto bello realizzarle; ma la mano che potrebbe assecondare questo desiderio è la solita mano, oppure è una nuova mano che si è ringiovanita, si è spogliata dai farraginosi orpelli ideologici inficiati dalla cultura materiale, semplice e pura?

Tutto appare, e storicamente consolidato, come una occupazione ideologica del territorio che parte dalla città; il pensiero si forma e si organizza nella città per poi invadere il territorio. Il rapporto Città Campagna si trasforma in Città Territorio. Nella maggior parte della legislazione urbanistica (si può tranquillamente insistere ancor oggi sulla disciplina ormai asfittica?) il territorio è codificato come “luogo di sfruttamento”, ovviamente a fini economici, ed ovviamente di una determinata economia. Sfruttamento del territorio come luogo esteso e complesso fatto di natura, di fonti energetiche, di materie prime ma in particolare, di complesse relazioni umane annullate, di seguito, dall’inganno delle conoscenze centellinate ed in forma di innovazioni tecnologiche. Si potrebbe pensare che la campagna si stata eliminata per lasciare posto all’indeterminatezza del territorio che, poi, al momento giusto, viene evocato per “farlo partecipare alle scelte politiche ed amministrative”. Una bella astrazione concettuale che trova materia nella realtà delle trasformazioni. Riferirsi alla campagna, nonostante le colture intensive ed estensive, nonostante la contaminazione del suolo e il consumo energetico generale, nonostante lo squilibrio tra assorbimento di energia e scarsa restituzione anche mediante oculate scelte di circolarità (prima e poi anche economica, se il concetto di economia è quello originale), riferirsi alla campagna, diventa un fastidioso alibi. La buona novella potrebbe essere la economia circolare, dove la circolarità è vista come “attivazione della circolazione delle merci e dei capitali strettamente legati alla tipologia del prodotto”; con il risultato che l’unica vera economia circolare, per ora, rimane quella del Capitale. La campagna è distrutta proprio dalla “ideologia” che ne ha stabilito i rapporti, le regole, utilizzando innanzitutto le prerogative della cultura materiale, dei suoi   procedimenti atavici ed ancestrali, per portarla alla contemporaneità economica, utilitaristica, nel miraggio tecnologico. Nulla di fortemente negativo, ma molto di immediato e travolgente annullando il principio dei vasi comunicanti. In questo modo tutte le forme di socializzazione si sono adeguate ed anche alienate, secondo un vecchio adagio materialistico-dialettico. Malgrado vengano scoperte o ri-scoperte progettualità in grado di individuare nel “disegno del territorio” la soluzione degli squilibri. Certamente sino ad ora e consapevolmente, ciò che avrebbe potuto garantire l’equilibrio tra la città e la campagna, non è stato praticato. L’equilibrio è alla base del corretto rapporto, anzi, è la natura stessa del rapporto; prendere dalla campagna per trasformare secondo i bisogni ma restituire nella stessa misura e qualità. Diversamente, ciò che viene lamentato, è l’esaurimento di tutte le risorse che il pensiero urbano tenta di correggere ammiccando la riconquista degli spazi abbandonati proprio da coloro che sono stati ammaliati e fagocitati dal progresso, mai definito e chiarito nelle sue prerogative positive così come nelle implicazioni negative.

Oggi questo consumato rapporto, ma rinnovato, lo chiamiamo città metropolitana, vale a dire, luogo esteso in cui trasmettere non solo tutte le implicazioni materiali ma anche le contraddizioni proprie della città. Potrebbe anche definirsi luogo per il “dialogo tra economia ed ecologia”, seguendo la “naturale” trasposizione terminologica, caratteristica della parcellizzazione della conoscenza, divenuta moda. Ogni cellula ha la sua specializzazione purchè appartenga ad un unico sistema. Di fatto è il territorio metropolitano, estensione organizzata della città, ma anche estensione ideologica, la proiezione della sua specifica realtà. [6] La città contemporanea è l’espressione sostanziale e fondamentale di tutti i processi produttivi, materiali e culturali, l’uno a sostegno dell’altro. Unificarle sotto il segno del “territorio metropolitano” significa estenderne le contraddizioni senza cambiare l’approccio risolutivo. Ed è solo una parte esigua ma significativa della società urbana che si organizza nella distribuzione delle conoscenze. Tutto, nei processi, appare corrispondere; non a caso i “luoghi dei poteri” giacciono nella città ed a loro, in un modo o nell’altro facciamo riferimento.

Potremmo definirla, “cultura metropolitana”. Plausibile sintesi del pensiero “orizzontale”, dopo quello debole e quello liquido. (riconducibile addirittura alla scoperta dell’ecosistema!).

Anche le così dette periferie urbane, identitarie proprio delle grandi contraddizioni urbane, vengono assunte come “possibili annessioni” alla città secondo principi fondativi, privandole di qualsiasi potenziale di ribellione volta al rinnovamento, al cambiamento dello status quo, alla risoluzione delle reali contraddizioni; risultano, le periferie, uno dei tanti luoghi della, diffusione del potere. Le periferie sono oggetto di “riappropriazione” metropolitana nonostante la loro pre-disposizione ad essere socialità autonome; non sono “uno strappo” di un tessuto che necessita di rammendi, senza specificarne tra le altre la qualità vera, ma opportunità scaturite sia dalla lettura sociologica delle sue condizioni, dalla premura politico amministrativa di avvantaggiarsi del consenso riproduttivo del potere. Certamente le professionalità hanno buon gioco nel dare forma alle istanze, là dove si manifestano, superando sè stesse e invadendo i campi ben delineati delle semplici esigenze esistenziali. 

Ma la distribuzione del potere nei luoghi dei poteri non implica la democratizzazione del potere, anzi, una semplice ed ingannevole diluizione, una rappresentazione formale, una estensione della subalternità ideologica. Il potere amministrativo espresso da quello politico, si manifesta utilizzando gli stessi paradigmi riconducibili, al mercato, da quelle tanto declamate regole che son viste ed accettate come leggi. Ulteriore prodotto della creatività umana, che oggi si identifica con la “rigenerazione urbana”.

La rigenerazione urbana viene spacciata con la rigenerazione materiale tout court, che usa i medesimi processi tecnici e le medesime visioni tecniche, per arrivare alle conclusioni ammantate di giovane bellezza, senza averla prima de-finita. Diventa una domanda anziché una risposta. La rigenerazione è una delle composizioni dialettiche introdotte e sostenute nel linguaggio metropolitano corrente; tende a rendere maggiormente partecipato il progetto diffuso e partecipativi i soggetti che sono di fatto i destinatari, i fruitori per usare anche qui un termine urbano obsoleto. Tra le infiltrazioni “sanificanti” la città, vi è l’inserimento del “verde” nelle sue forme varie, dall’albero che crea il bosco, all’orto che crea le comunità partecipanti, agli edifici ricoperti di fogliame purchè siano tutte espressioni della volontà di “costruire il cambiamento”. Il cambiamento però va individuato, ovvero andrebbero specificate le parti del sistema che si vorrebbero cambiare, uscendo dalle pure e noiose campagne pubblicitarie che affermano le biodiversità in luoghi altamente antropizzati, la sostenibilità dell’agire disconoscendo le fondamenta ormai erose del concetto medesimo di sostenibilità. Eppure, nella piena consapevolezza che sia il mercato, il quale detta le leggi, sia la tecnologia, la quale poco spartisce con la tecnica che è fortemente legata alla creatività umana, si presentano miracolosamente sul piatto della innovazione. Rubato il fuoco agli Dei, l’uomo si sente libero, e forse anche giustamente, così evita inutili cerimoniali e liturgie. L’innovazione riesce a cogliere tutti gli aspetti interlocutori del “divenire” urbano; afferma che l’economia deve essere circolare e al di fuori di quella circolarità, uscendo dal perimetro, si esce dalle condizioni generatrici di tutti i citiati cambiamenti. Ma, l’unica circolarità vera ed inequivocabile, come affermato, è quella del Capitale, nelle forme che meglio sceglie usando sonorità diverse ma sempre utilizzando il medesimo flauto.

Risolvendo le contraddizioni urbane si dovrebbero risolvere le contraddizioni del territorio, ma le contraddizioni devono venire risolte agendo sul rapporto che la città ha vissuto e vive tutt’ora con il territorio, con quella che veniva definita in un tempo remoto, la “campagna”. Non è tanto un problema di “forma del territorio e del rapporto città campagna” ma invece di processi produttivi prima espressi e poi sorretti da una precisa ideologia, da una acclarata cultura metropolitana diffusa e ormai asfittica; ha preso il sopravvento l’apatia, una specie di oblomovismo dal quale appare difficile liberarsi poiché anche coloro che detengono il potere della comunicazione vivono nel medesimo ricatto. Affrontare il rapporto “città campagna” certamente ci ri-conduce alle profonde trasformazioni che drasticamente hanno colpito sia la città che la campagna. La prima dettando le regole e le forme di occupazione dei territori “fuori le mura”, ponendole al proprio servizio, chiedendo in cambio di “crescita civile” materie prime ed umane e sostentamenti ma denunciandone i limiti temporali; la seconda ammaliata dalla modernità e dal consumo immediato, disposta al sacrificio generazionale ed alla privazione delle modeste ma fondamentali condizioni di appagamento esistenziale, aggrappandosi alle ultime riserve messe in crisi dal sistema economico. Una forma di contrasto, un crescendo repentino delle contraddizioni materiali, sociali e culturali. Nel ricatto politico, nella illusione democratica. Anche qui, e forse più che altrove, le divinità del progresso hanno saputo raccogliere adepti, devoti e predicatori.

I più attenti si riferiscono all’esaurimento propulsivo della borghesia, a colei che storicamente, dopo la ghigliottina, ha preso in mano le sorti progressive della Umanità; ma solo queste, essendosi trasformata rapidamente in aristocrazia, interprete e sostenitrice delle disuguaglianze, sovente critica ed autocritica ma incapace di proporre alternative. La manipolazione delle disuguaglianze le ha annebbiato la vista; l’ossessione del possesso a quanto pare, aliena la percezione fisica della realtà. E questo è uno dei maggiori limiti di questa cultura!

La realtà del rapporto con il territorio non solo si è fortemente modificata, ma si è anche esaurita. Per comprenderne a fondo le “ragioni” occorre attivare i reali processi di cambiamento; cambiare le ragioni medesime, i paradigmi che hanno seminato e fatto crescere la condizione attuale. La cultura metropolitana ha raggiunto il suo esaurimento, non parla e non afferma ma balbetta. Le classi che l’anno generata si sono mescolate nella ricerca della sopravvivenza; il progetto della città si è perso prelevando il midollo della campagna. Quando si parla, e a tema, di ambiente non si ha il coraggio di negarsi, di negare la propria impreparazione e le capacità ad effettuare la vera rigenerazione sociale filtrando le contraddizioni dell’economia produttiva e distributiva delle merci, rigenerando ad esempio, non il lavoro, ma i soggetti che lo agiscono.

Le parti che compongono la città ed il territorio e che danno forma alle funzioni sociali, non sono date una volta per tutte.

Giustamente, affermare che il territorio è diventato un grande mercato riprende proprio la visione reale del territorio e quindi della città come un tutt’uno sia sotto gli aspetti squisitamente ideologici che materiali. In questo la “cultura metropolitana” è riuscita anche motu proprio ad ottenere un ottimo risultato. Si è formata sulla comunicazione e sulle sue regole, sul possesso delle nozioni e di tutti gli strumenti adatti, sull’appiattimento prima e sull’annullamento dopo, della divisione della conoscenza e del lavoro che sono alla base del sistema stesso.

La conoscenza non è la somma delle informazioni alla quale applicare la proprietà commutativa: il processo informativo dovrebbe invece essere in-formativo.

Le conoscenze sono state diffuse ma “impacchettate” in specifici prodotti, sicchè i prodotti risultino la forma delle conoscenze. Maggiore ed ampia è la qualità del prodotto e maggiore è la conoscenza ma sempre meno foriera di implicazioni critiche. La stessa cultura si priva di elementi critici lasciando la prerogativa all’apparato intellettuale che, nella divisione della conoscenza, si estranea dalla divisione della produzione e del lavoro.

Resasi insignificante nella sua materialità, la divisione del lavoro si è modificata nella divisione dello sfruttamento dei lavoratori, nella loro organizzazione produttiva. Le conoscenze, in questo modo rimangono aggrappate alle finalità di quella tipologia di lavoro e di lavoratore e, sempre paradossalmente, potremmo sostituirla con la “divisione organizzativa degli automatismi” fuori e dentro i luoghi di produzione. Anche il dramma personale viene restituito alla realtà nelle sembianze spettacolari.  Di felicità e non di gioia, ovviamente. La cultura sostiene la felicità e non la gioia. In questo la moda, nella sua più ampia accezione, può venire assunta come sintesi della informazione, anzi vero processo di in-formazione. Anche la “questione ambientale”, anziché essere un problema reale, diventa didatticamente un “tema”. Rimangono le metropoli, le città, le periferie, il territorio e la campagna con le sue colline e le montagne, luoghi per le forme di resilienza, anzi proprio ora e meglio di un tempo, per dare forma alla resilienza.[7]

La cultura metropolitana ha creato e gestito le contraddizioni. Ha creato le conoscenze distribuendole nella forma delle merci, ha unito le illusioni sociali con il soddisfacimento dei bisogni senza creare gerarchie di consumo, illudendo i processi di democratizzazione e non è riuscita a fondere i processi innalzando quindi l’approccio diffuso ai saperi.

Stefano Topuntoli, Acciaierie Falck Sesto San Giovanni, 2020

[1] Sulla sostenibilità potremmo scrivere a lungo, dalle sue origini leggere anche se proposte con un certo impegno, alle attuali abusive acquisizioni in tutti i luoghi ed in tutti i discorsi. Intanto, come le caramelline, fanno dolce la bocca ma se esagerate possono compromettere lo stomaco. E noi siam qui, allo stomaco. Equilibrio invece stabilisce che tanto tolgo sotto il profilo energetico complessivo alla natura e tanto debbo immediatamente restituire. Infatti, ogni anno ci mangiamo le risorse che abbiamo” tenute nel frigorifero” per l’anno dopo.

[2] Ri-innovandosi, la sacralità ed ineluttabilità della innovazione!

[3] Nella comunicazione prevale sviluppo, crescita e sostenibilità: senza chiarire che cosa si intenda. Va da sé che “ognuno” intendendo a modo proprio lo sviluppo, la crescita e la sostenibilità, propone un inganno come ingannevole è ogni forma di pubblicità. Se ne parla addirittura nella “pulizia dei detriti satellitari “che rimangono in orbita. Orbene, la sostenibilità che dovrebbe essere a capo ti tutti i processi, diventa anch’essa merce di scambio.

[4] La felicità sembra data dall’insieme del piacere con una momentanea manifestazione di benessere; argomento che andrebbe sviscerato tenendo conto che siamo in pieno materialismo e i cimiteri son pieni di spiritualità sepolte.

[5] Il confronto tra gioia e felicità è ostico ma se si guarda al 4°movimento della 9° di Beethoven qualcosa si capirebbe.

[6] A ben vedere, nulla di nuovo nella storia umana ed urbana: la città territorio è una delle primitive forme di aggregazione e di controllo sociale, si veda Coppa, urbanistica dalle origini all’ellenismo, Einaudi.

[7] Ci stiamo abituando a questo termine, ottima dimostrazione di ciò che viene elargito alla popolazione che non conosce ma ne apprezza la novità. Ricorda il Nerone di Petrolini. Termine rubato alla tecnologia dei materiali ma calato nella socialità umana. Emblematico e contemporaneamente sintomatico. l

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