UCTAT Newsletter n.37 – settembre 2021
di Paolo Aina
Le parti di città dismesse o non ancora costruite o da ricostruire e le politiche ad esse afferenti immagino saranno una cospicua parte dei programmi elettorali per le elezioni del prossimo autunno. Guardando alla scorsa legislatura le decisioni prese penso abbiano una caratteristica improntata al marketing: l’urbanistica tattica delle piazze a pois scoloriti con le prime piogge, una caratteristica repressiva data ai regolamenti edilizi e alle norme di piano che però vengono applicate in modo restrittivo solo agli interventi di piccole dimensioni o a quelli all’interno delle unità abitative, una caratteristica di asservimento ai grandi fondi a cui si spiana la strada bypassando con convenzioni specifiche, le norme e i regolamenti tignosamente applicati a chi non dispone di nessun potere.
I risultati progettuali, a vedere dalle notizie e dalle loro illustrazioni, un grattacielo qui e uno là, alberi in fila o sparsi, boschi definiti orizzontali ma scarsamente alberati; soluzioni basate più sul fascino delle parole che sulla effettiva voglia e capacità di portarne a termine la realizzazione.
Le costruzioni sono rutilanti le architetture sono ardite a vederle un moto di orgoglio per la “Milano che non si ferma” mi prende e poi mi chiedo: “Non si ferma, ma per andare dove e con chi?”.
La città, la nostra città, non è Manhattan, ha caratteristiche sedimentate e identitarie, come tutte le città europee, che queste nuove architetture scordano o ignorano.
La tradizione architettonica milanese di “buone costruzioni a prezzo basso” è dimenticata nello sfolgorio dell’high tech o nell’anonimia dei courtain wall vetrati.
Non è solo una questione di costi, si trasforma con un’estetica che non dà respiro, una città dove non ci si può fermare appunto “Milano che non si ferma”.
Fermarsi però sarebbe utile per tornare a pensare alle domande sulla nostra vita che non hanno risposta ma che occorre farsi ogni tanto per poter ricominciare ad andare.
Come diceva un importante architetto:
“L’architettura è troppo importante per lasciarla agli architetti”. (1)
Aggiungerei anche gli Uffici comunali preposti.
Non mi nascondo che è difficile parlare di un progetto complessivo per una città anche se solo gli addetti ai lavori più qualificati vi si applicassero, la velocità con cui si succedono i mutamenti è impressionante e questo confligge con la lentezza delle pratiche abilitative e costruttive.
Gli usi degli edifici si trasformano: da uffici ad abitazioni, da abitazioni a uffici, da luoghi di produzione materiale a case e spazi di produzione di servizi secondo un turn over frenetico.
Nell’ultimo anno poi le vicende sanitarie hanno modificato profondamente e reso evidenti le carenze spaziali degli edifici: case troppo piccole, uffici troppo grandi.
In tutto ciò la precisione delle superfici, delle funzioni, delle destinazioni, dei colori della facciata, della forma delle finestre si sfalda perché tutti vogliamo vivere con più libertà.
Che fare allora?
Un altro importante architetto negli anni ’30 scrisse:
“Non ci vuole un nuovo modo di costruire. Ci vuole un nuovo modo di vivere” (2)
I tempi lo hanno superato, ora abbiamo un nuovo modo di vivere ma costruiamo ancora come se fossimo ancora in quel tipo di modernità.
Ora le cose che contano si sono rivelate nella loro pienezza: la voglia di libertà spaziale, la ricerca di una felicità degli spazi che possa corroborare la nostra felicità e soprattutto la richiesta di una speranza per il futuro che non si manifesta in una spazialità aggressiva ma si realizza meglio con uno spazio che ci accoglie senza sovrastarci.

NOTE
- G. De Carlo “Il pubblico dell’architettura” Parametro n. 5/1970
- B. Rudofsky “Non ci vuole un nuovo modo di costruire. Ci vuole un nuovo modo di vivere”
Domus n. 123/1938